Note sulla nuova disciplina della sospensione condizionale della pena

(Cristina Ardenghi - Giudice del Tribunale di Mantova)

 

Con la legge 11 giungo 2004, n. 145,  il legislatore ha introdotto sostanziali modifiche alla disciplina codicistica dell’istituto della sospensione condizionale della pena (oltre che  in materia di riabilitazione del condannato).

Le novità legislative hanno interessato gli articoli  163 e 165 del codice penale, nonché le disposizioni di coordinamento e transitorie dello stesso codice, mediante l’introduzione, dopo l’art. 18, dell’art. 18 bis.

Vediamo in breve le novità introdotte, partendo dall’art. 163 c.p.

Fermo restando il principio secondo cui la sospensione condizionale della pena può essere concessa in caso di sentenza di condanna alla reclusione o all’arresto  per un tempo non superiore a 2 anni, ovvero in caso di pena pecuniaria  che sola o congiunta alla pena detentiva e ragguagliata a norma dell’art. 135 c.p. (€ 38 o frazione di € 38 per un giorno di pena detentiva) non sia superiore allo stesso limite di 2 anni di pena privativa della libertà personale, il legislatore ha previsto la possibilità di concessione del beneficio - con esclusivo riguardo alla sola esecuzione della pena detentiva - anche nell’ipotesi di condanna ad una pena detentiva non superiore a 2 anni congiunta a pena pecuniaria che, ragguagliata a norma dell’art. 135 c.p., dia nel complesso  una pena privativa della libertà personale superiore a detto limite (art. 163, 1° comma c.p.).

In altri termini, purchè la pena detentiva inflitta non superi il limite di 2 anni, l’eventuale pena pecuniaria congiunta alla prima che determinerebbe  il superamento del limite di 2 anni di pena privativa della libertà personale, non è più di ostacolo alla concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena detentiva.

Con due disposizioni di analogo contenuto il legislatore ha adeguato i commi 2° e 3° dell’art. 163 c.p. relativi, rispettivamente, ai minori di anni 18 e a persone di età compresa tra i 18 e i 21 anni o ultrasettantenni, statuendo la possibilità di sospensione della pena detentiva nel caso di condanna   non superiore a  3 anni (comma 2°) o a 2  anni e 6 mesi (comma 3°),  anche quando dette pene, congiunte a pena pecuniaria  ragguagliata a norma dell’art. 135 c.p., diano una pena privativa della libertà personale complessiva superiore ai limiti indicati.

Così operando è evidente, anzitutto, la volontà del legislatore di recuperare una certa sistematicità tra la disciplina del patteggiamento, per il quale era ed è indifferente la concorrente applicazione di una pena pecuniaria, e quella della sospensione condizionale della pena che invece, fino alle modifiche introdotte dalla novella, teneva conto delle pene pecuniarie comminate congiuntamente, attraverso il meccanismo di ragguaglio, ai fini del calcolo del limite edittale per accedere al beneficio.  

Per la prima volta poi, - ed è questo un  elemento di assoluta novità - il legislatore ha sostanzialmente frazionato gli effetti della sospensione condizionale della pena,  limitandola nelle ipotesi testè descritte alla sola pena detentiva, con esclusione di quella pecuniaria (il che comporterà per il condannato l’obbligo di provvedere comunque al pagamento della multa/ammenda inflitta congiuntamente alla pena detentiva sospesa, con le inevitabili conseguenze nelle ipotesi di impossibilità di esazione e di accertata insolvibilità del condannato).

Di assoluto rilievo è poi anche la disposizione trasfusa dalla novella nell’attuale 4° comma dell’art. 163 c.p. che prevede, nell’ipotesi in cui la pena detentiva inflitta non sia superiore ad 1 anno  e sia stato riparato interamente il danno prima della pronuncia della sentenza di primo grado (attraverso il risarcimento o altre condotte riparatorie  analoghe a quelle indicate dall’art. 62 n. 6 c.p. e rilevanti come circostanza attenuante), un termine di sospensione dell’esecuzione della pena “abbreviato”, pari ad un anno, ai fini del conseguimento dell’effetto estintivo di cui all’art. 167 c.p.,  e ciò indipendentemente dalla natura del reato per il quale si è riportata condanna, delitto o contravvenzione (a fronte del termine ordinario di 5 anni per i delitti e di 2 anni per le contravvenzioni).

Quid iuris, però, nel caso in cui il reato non determini danni concretamente risarcibili, né permangano conseguenze dannose o pericolose dopo la sua consumazione  (si pensi a molte contravvenzioni  o ai delitti in materia di armi, stupefacenti,  alla normativa relativa all’immigrazione clandestina)?

In tali ipotesi, a parere di chi scrive,  deve comunque ritenersi applicabile l’istituto della sospensione “abbreviata” dettata dall’attuale  4° comma dell’art. 163 c.p., sia perché una tale soluzione sembra suggerita dai riferimenti che la norma stessa contiene parlando di restituzioni “quando sia possibile” e di  conseguenze dannose o pericolose del reato  concretamente “eliminabili” da parte dell’imputato, sia  perché una lettura costituzionalmente orientata di detto istituto porta ad escludere una diversa interpretazione, che eliminerebbe dal suo ambito di applicazione – certamente di favore per il reo – così determinando un’ingiustificata disparità di trattamento, paradossalmente proprio le fattispecie di reato  che non presentano un danno specifico risarcibile. 

Le modifiche introdotte all’art. 165 c.p. attengono agli obblighi del condannato, obblighi al cui adempimento può essere subordinata la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena nella sentenza di condanna.

Com’è noto, la norma stabilisce che la sospensione condizionale della pena può essere subordinata  dal giudice  all’adempimento dell’obbligo delle restituzioni, al pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno o assegnata in via provvisionale sull’ammontare di esso e più in generale alla eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato.

Accanto a queste condotte riparatorie tipiche, il legislatore ha introdotto la previsione – nel caso in cui il condannato non vi si opponga – della “prestazione di attività non retribuita a favore della collettività per un tempo determinato comunque non superiore  alla durata della pena sospesa”, secondo le modalità indicate dal giudice nella sentenza di condanna.

Il richiamo al lavoro di pubblica utilità, quale  sanzione penale tipica del giudice di pace, è palesemente innegabile e risulta espressamente confermato dall’ art. 5 della novella, che aggiunge alle disposizioni di coordinamento e transitorie del codice penale  l’art. 18 bis, il quale recita testualmente:

“Nei casi di cui all’art. 165 c.p. il giudice dispone che il condannato svolga attività non retribuita a favore della collettività osservando, in quanto compatibili, le disposizioni degli artt. 44, 54, commi 2, 3, 4 e 6, e 59 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274”, cioè appunto le norme che per i reati di competenza del giudice di pace regolano le modalità di esecuzione della pena del  lavoro di pubblica utilità.

Tuttavia è importante osservare  che la prestazione del lavoro a favore della collettività di cui all’ art. 165 c.p., se pure ha un innegabile contenuto afflittivo e per certi aspetti limitativo della libertà personale, temperato solo dal fatto che la sua concreta applicazione non può prescindere dal consenso dell’interessato, lungi dal rappresentare una sanzione penale sostitutiva della pena sospesa, costituisce invece una vera e propria condotta riparatoria, al cui adempimento può essere  subordinato il beneficio della sospensione condizionale della pena, in alternativa al risarcimento del danno o all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato.

L’altra fondamentale modifica apportata all’art. 165 c.p. è rappresentata dall’ eliminazione dell’inciso “salvo che ciò sia impossibile” contenuto nel 2° comma della stessa norma, che disciplina l’ipotesi in cui la sospensione condizionale della pena venga concessa per la seconda volta, cioè ad un soggetto che ne abbia già usufruito.

Mentre prima della riforma la sospensione condizionale della pena poteva essere concessa a prescindere dall’imposizione al condannato di uno degli obblighi di cui al 1° comma (infatti le condotte riparatorie potevano essere imposte sempre che fossero possibili, in altri termini concretamente attuabili),  oggi l’eliminazione dell’inciso de quo obbliga l’interprete a ritenere che la concessione del beneficio a soggetto che ne abbia già fruito debba necessariamente essere subordinata all’imposizione di uno degli obblighi indicati nel 1° comma della norma, cioè una condotta riparatoria/risarcitoria o la prestazione del lavoro a favore della collettività.

E’ ovvio che nelle ipotesi in cui le condotte riparatorie tipiche non fossero concretamente attuabili (basti pensare al caso di reati che non generano un danno suscettibile di riparazione), si porrà il problema  di stabilire se in tal caso  l’alternativa costituita dal lavoro di pubblica utilità possa essere posta come condizione del beneficio anche a prescindere dal consenso del condannato, previsto  dal 1° comma dell’art. 165 c.p.

A parere di chi scrive, contrariamente a quanto ritenuto da autorevoli commentatori (“Via libera al lavoro di pubblica utilità anche se si è già usufruito del beneficio” di Renato Brichetti e Luca Pistorelli in “Guida al Diritto” n. 25 del 26.6.2004) non si potrà anche in tal caso prescindere dalla “non opposizione” del condannato, tenuto conto della natura anomala di detto obbligo riparatorio e del suo  contenuto fortemente afflittivo della sfera personale, con la conseguenza che in caso di opposizione dell’interessato al giudice non rimarrà  che negare il beneficio della sospensione condizionale della pena (ed invero non può escludersi neppure astrattamente che sia preferibile ad una pena sospesa,  con gli obblighi del lavoro di pubblica utilità e con le inevitabili incertezze connesse alla durata del periodo di sospensione, l’esecuzione della stessa  pena  attraverso misure alternative). 

Da ultimo,  la legge di riforma ha introdotto all’art. 165 c.p. un nuovo terzo comma, statuendo che le disposizioni del 2° comma non si applicano nell’ipotesi in cui “la sospensione condizionale della pena  sia stata concessa ai sensi del quarto comma dell’art. 163”, cioè quando la prima sospensione condizionale della pena sia stata concessa con termine abbreviato (per condanne a pena  non superiore a un anno  e con integrale riparazione del danno).

Ora, l’esame complessivo delle disposizioni introdotte dalla novella pone  una serie di questioni interpretative di non poco conto.

Un primo aspetto attiene agli effetti della sospensione condizionale della pena nelle nuove ipotesi tracciate dal legislatore con riguardo al tema delle pene accessorie, dal momento che l’art. 166 c.p. non è stato in alcun modo modificato dalla novella.

In altri termini, nel caso in cui la sospensione condizionale della pena riguardi unicamente la pena detentiva con esclusione di quella pecuniaria, detta sospensione si estenderà o meno alle pene accessorie ex art. 166 c.p.?

Nel silenzio del legislatore  si può ragionevolmente prospettare la tesi che la sospensione della sola pena detentiva coinvolga comunque anche le pene accessorie, comunemente ritenute dalla dottrina come complementari e consequenziali alla pena principale al fine di aggravare, in relazione a determinati reati, il trattamento sanzionatorie complessivo (d’altro canto l’art. 20 c.p. recita testualmente: “Le pene principali sono inflitte dal giudice con sentenza di condanna; quelle accessorie conseguono di diritto alla condanna, coma effetti penali di essa”).

Ed infatti, una volta sospesa l’esecuzione della pena di contenuto più grave ed afflittivo, a fronte del giudizio prognostico favorevole di cui all’art. 164 c.p.,   avrebbe poco senso pensare ad una esecuzione svincolata ed autonoma delle  eventuali pene accessorie, spesso gravemente limitative della capacità personale,  in uno con l’esecuzione della congiunta pena pecuniaria.

Un problema ulteriore posto dalla nuova normativa attiene indubbiamente al rapporto tra pena detentiva sospesa  e pena pecuniaria da eseguirsi, rispetto  al meccanismo estintivo del reato previsto dall’art. 167 c.p., conseguente al positivo superamento del periodo “di prova”  senza ricadute dal parte del condannato, che abbia peraltro adempiuto agli eventuali obblighi impostigli ex art. 165 c.p.

Cioè in altri termini: il reato deve ritenersi estinto una volta superati  positivamente i termini di durata della sospensione (5 anni, 2 anni o 1 anno nell’ipotesi della speciale sospensione di cui al 4° comma dell’art. 163 c.p.)  solo quando sia stata eseguita la pena pecuniaria congiunta  non sospesa o anche indipendentemente da tale circostanza?

La risposta al quesito non è di poco conto.

Se, infatti, si dovesse ritenere  che il semplice decorso del termine edittale comporti comunque l’estinzione del reato per il quale è stata riportata condanna, non potrebbe  più farsi luogo neppure all’esecuzione della pena pecuniaria, seppure non sospesa in sentenza.

Così ragionando, però, non si comprende per quale motivo il legislatore ha distinto, ai fini della sospensione dell’esecuzione, le pene detentive  da quelle pecuniarie, dando in concreto maggiore effettività a quest’ ultime,  sottratte al meccanismo della sospensione condizionale.

Sembrerebbe, invece, più corretto ritenere che l’esecuzione della pena pecuniaria non sospesa, anche attraverso i meccanismi legali di conversione, costituisca una condizione necessaria al fine del conseguimento dell’effetto estintivo del reato,  al pari dell’adempimento degli altri obblighi eventualmente imposti al condannato ex art. 165 c.p.

Sempre con riguardo al momento estintivo,  occorre accennare al rapporto tra la nuova sospensione condizionale “abbreviata” ed il giudizio di applicazione della pena.

E’ noto, infatti, che l’art. 445 c.p.p., al comma 2°, prevede a seguito della sentenza di patteggiamento “non allargato”, cioè negli originali limiti edittali di 2 anni di pena detentiva  soli o congiunti a pena pecuniaria,  l’effetto estintivo del reato (e di ogni effetto penale)  se nel termine di 5 anni, quando la sentenza concerne un delitto, ovvero di 2 anni, quando riguardi una contravvenzione, l’imputato non commette un delitto ovvero una contravvenzione  della stessa indole.

I termini e le condizioni sono identici a quelli  previsti dagli artt. 163 e167 c.p.,  sicchè  fino ad oggi quando la pena applicata veniva condizionalmente sospesa non si verificava alcuna asimmetria tra i due istituti rispetto all’effetto estintivo del reato, che conseguiva decorsi gli stessi termini.

Ma nel caso in cui operi l’istituto della sospensione “abbreviata” disciplinata dal nuovo 4° comma dell’art. 163 c.p. e la pena venga applicata su richiesta delle parti, quid iuris rispetto all’effetto estintivo del reato?

Si realizzerà, comunque, decorso positivamente il termine di un anno (che opera indifferentemente dalla natura del reato) o, diversamente, bisognerà attendere i termini ben più impegnativi di 5 o 2 anni fissati dall’art. 445 c.p.p., a seconda che si tratti di delitto o contravvenzione?

Qui pare ragionevole ritenere che il mancato raccordo tra la nuova disciplina sostanziale e quella processualistica non possa che risolversi  a favore della prima, comunque più favorevole al reo, con la conseguente estinzione del reato nel termine di un anno all’esito del periodo di sospensione  (ad esclusione degli effetti penali della condanna,  che a mente dell’ art. 445 c.p.p. dovrebbero comunque conseguire solo dopo il decorso dei termini ivi previsti).

Anche la mancanza di una disciplina transitoria può  ingenerare a parere di chi scrive qualche perplessità applicativa.

In linea generale, trattandosi di norme di diritto sostanziale,  deve ritenersi operante il principio  della successione delle leggi penali  nel tempo  di cui all’art. 2 c.p., con la conseguenza che dovrà applicarsi, anche con riferimento ai reati commessi anteriormente all’entrata in vigore della novella, la disciplina della sospensione condizionale più favorevole al reo (salvo l’ostacolo del giudicato), con l’avvertenza che la valutazione del favor legis  dovrà essere effettuata, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, non in astratto ma in concreto, con riguardo alla singola fattispecie in esame.

E’ indubbio, pertanto, che le nuove norme potranno trovare piena applicazione, oltre che  nei giudizi di primo grado pendenti, anche  in quelli di appello, dal momento che  il beneficio della sospensione condizionale è per sua natura riservato alla valutazione del  giudice di merito e l’art. 597 c.p.p. prevede espressamente  che con la sentenza  emessa in grado di appello possono essere applicate, anche d’ufficio, la sospensione condizionale della pena, la non menzione  della condanna e una o più circostanze attenuanti.

Di conseguenza,  dovrebbe potersi affermare, ad esempio,  che il giudice di appello possa concedere il beneficio de quo,  all’esito del giudizio prognostico favorevole, quando questo sia stato negato in primo grado con riguardo agli  originari limiti edittali di cui all’art. 163 c.p.

Quanto al giudizio di cassazione, in mancanza di una disciplina specifica, si pone il problema di stabilire in che modo le nuove norme - qualora ritenute più favorevoli all’imputato -  possano trovare applicazione, considerato che la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena involge comunque valutazioni di merito, connesse al giudizio prognostico di cui all’art. 164 c.p.,  sottratte al sindacato di legittimità della Suprema Corte.

Tuttavia, poiché l’art. 609, 2° comma c.p.p. consente alla Corte di decidere le questioni rilevabili d’ ufficio e quelle che  non sarebbe stato possibile dedurre con i motivi di appello  - l’ipotesi tipica è proprio quella dello ius superveniens -  potrebbe prospettarsi la possibilità   di un annullamento della sentenza impugnata in punto di diniego della concessione della sospensione condizionale della pena,  con rinvio al giudice di merito per le determinazioni di competenza  (interpretazione che sembra avvalorata dalle sentenze Cass. Sez. IV, 24.5.1991, Carlino; Cass. Sez. I, 26.5.1986, Macaluso; Cass. Sez. I, 12.12.1982, Di Trani).

Di contro,  dovrebbe escludersi l’applicabilità ai giudizi pendenti dell’art. 620, lett. l) c.p.p., cioè un annullamento della sentenza impugnata senza rinvio, considerato che la concessione della sospensione condizione della pena  implica sempre un giudizio fattuale e di merito inammissibile in sede di  legittimità.   

Cristina Ardenghi – Giudice del Tribunale di Mantova