Ricorso per ingiunzione –Prova - Saldaconto
bancario –Inidoneità - Estratto integrale del conto – Necessità - Contratti
stipulati anteriormente l'entrata in vigore della l. 154/92 - Clausola
determinativa degli interessi con riferimento agli usi di piazza – Inefficacia
- Determinazione degli interessi - Criterio sostitutivo –Individuazione - Modalità
di determinazione. Fusione per incorporazione fra istituti bancari -
Riassunzione del giudizio da parte della banca cessionaria del ramo d'azienda
- Legittimazione processuale e titolarità del diritto controverso -
Sussistenza. Tribunale di
Mantova, Sez. II – Giudice Unico Dott. Luigi Bettini - Sentenza del giorno
10 settembre 2004.
La massima: E' nullo il decreto ingiuntivo emesso sulla base del solo saldaconto dovendo essere prodotto il completo estratto del conto da cui evincere le operazioni compiute durante l'intero rapporto. Le clausole contrattuali stipulate anteriormente all'entrata in vigore della l. 154/92 che, con riguardo agli interessi dovuti dalla clientela, si limitano a fare riferimento alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza, sono divenute inoperanti a partire dal 9 luglio 1992. Al
contratto di conto corrente bancario privato della clausola nulla si
applicano gli interessi in misura legale e dunque a) quella calcolata ex art.
1284 c.c. fino all'entrata in vigore della l. n. 154/92; b) quella calcolata
ex art. 5 l.n. 154/92 e, poi, ex art. 117 d. lgs. n. 385/93: in tal caso gli
interessi vanno determinati con riferimento al tasso minimo e massimo dei BOT
calcolato prendendo a riferimento l'anno della loro emissione anteriore ad
ogni operazione, con la precisazione che, dopo la chiusura del conto, gli
interessi andranno invece calcolati ex art. 1284 c.c. Nel
caso in cui a seguito di fusione per incorporazione fra istituti di credito
il processo sia stato dichiarato interrotto e, quindi, riassunto non
dall'incorporante, rimasta contumace, bensì dalla diversa banca a cui
l'incorporante aveva ceduto un ramo della propria azienda, la cessionaria,
sotto il profilo processuale, assume la veste di interveniente volontaria e,
sul piano sostanziale, avendo provato la successione nel rapporto oggetto del
giudizio, va considerata, essa sola, titolare del diritto controverso. SVOLGIMENTO DEL
PROCESSO
Con atto di citazione ritualmente notificato Ferruccio Alfredo svolgeva
opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 678/97 emesso dal Pretore di
Mantova il 24/9/97 e notificatogli il 2/10/97 con il quale la B.A.M. s.p.a.
aveva ottenuto la sua condanna al pagamento della somma di £. 42.594.156,
oltre agli interessi al tasso del 10% dal 10/9/97 all’effettivo soddisfo
quale saldo debitore del conto corrente n. 14442/5 a lui intestato. Dopo avere stigmatizzato la scorrettezza della banca creditrice
nella gestione dei rapporti di conto corrente e di apertura di credito (al
primo accessoria) contestava anzitutto un addebito con valuta 4/5/94 per £.
4.930.000 perché relativo ad un’operazione non compiuta da lui. Contestava inoltre la determinazione della misura degli
interessi operata dall’istituto di credito sia con riferimento alla loro
misura, stabilita con rinvio agli usi su piazza, sia alla loro capitalizzazione
trimestrale, dovendo ritenersi nulle entrambe le clausole. Contestava ancora gli addebiti relativi alla commissione di
massimo scoperto, in alcun modo pattuita né con il contratto di conto
corrente né con quello di apertura di credito. Chiedeva pertanto che fosse revocato il decreto opposto ed
accertato l’esatto ammontare del suo debito nei confronti della banca alla
luce di tutte le difese svolte. Chiedeva infine che fosse dichiarata la nullità del contratto di
apertura di credito perché non concluso per iscritto. Si costituiva in giudizio la B.A.M. s.p.a. chiedendo il rigetto
dell’opposizione perché infondata in fatto ed in diritto. Affermava la legittimità di tutte le pattuizioni contrattuali,
la correttezza nell’esecuzione del rapporto e, conseguentemente, l’esattezza
del calcolo nella determinazione del saldo passivo finale al momento della
chiusura del conto corrente. Chiedeva pertanto la conferma del decreto opposto. Chiedeva altresì, in via riconvenzionale subordinata, la
condanna dell’attore al pagamento degli interessi nella misura del 10%, o
comunque non inferiore al prime rate
o al T.U.S., anche a titolo di risarcimento del danno. Il giudice ammetteva le prove richieste dalle parti nei limiti
di cui all’ordinanza del pronunciata l’8/7/99 in seguito a scioglimento di
riserva; all’esito dell’istruttoria compiuta, disponeva una CTU per la
determinazione del saldo del conto corrente oggetto di controversia. All’udienza dell’8/7/03 la causa era interrotta in seguito
all’avvenuta fusione per incorporazione della convenuta nel Monte dei Paschi
di Siena s.p.a. Tempestivamente riassunta, quest’ultimo restava contumace,
mentre interveniva volontariamente ex art. 111/3 c.p.c. la nuova B.A.M.
s.p.a. cessionaria di un ramo d’azienda dallo stesso Monte dei Paschi di
Siena s.p.a. All’udienza del 27/4/04 le parti precisavano le conclusioni,
l’attore rinunciando alla domanda di nullità dell’apertura di credito in
conto corrente avendo la convenuta prodotto il relativo contratto e
chiedendo, per converso, la nullità del decreto ingiuntivo per essere stato
emesso in assenza di idonea prova scritta. Il giudice tratteneva infine la causa in decisione assegnando ad
entrambe i termini di cui all’art. 190 c.p.c. MOTIVI DELLA DECISIONE Deve anzitutto essere dichiarata la contumacia del Monte dei
Paschi di Siena s.p.a., ritualmente citato e non comparso. Deve inoltre essere dichiarata la nullità del decreto ingiuntivo
per essere stato emesso in assenza di idonea prova scritta ex artt. 633/1 n.
1, 634 c.p.c. e 50 D.l.vo n. 385/93, come ritualmente eccepito dall’opponente
nella sola comparsa conclusionale e comunque rilevabile anche d’ufficio. Afferma il Ferruccio che il decreto è stato emesso sulla base di
un semplice saldaconto e non di un completo estratto conto da cui evincere le
operazioni compiute sul conto corrente durante l’intero rapporto, così come
previsto dal citato art. 50. L’eccezione è fondata. Tale ultima norma ha infatti innovato la disciplina della prova
documentale richiesta al ricorrente nella fase monitoria. Se il previgente testo unico in materia bancaria riteneva
sufficiente per la concessione del decreto ingiuntivo il mero saldaconto, ora
è richiesto l’estratto conto. La ratio della
modifica legislativa è evidente ed è volta ad una prova piena del credito già
nella fase monitoria. Se con il saldaconto l’istituto di credito si limitava a
certificare il saldo finale del conto corrente, l’estratto conto dà invece
contezza dell’intera movimentazione del conto corrente per tutta la durata
del rapporto e dunque dà contezza di tutte le operazioni che hanno condotto a
quel saldo. Ovviamente tale prova documentale è rilevante anche nella fase
di opposizione, come già prima dell’entrata in vigore dell’art. 50 citato,
quanto il saldaconto costituiva prova idonea comunque solo nella fase
monitoria, non anche in quella d’opposizione. Secondo un orientamento della Corte di legittimità assolutamente
consolidato, l’estratto conto è infatti un documento contabile che dà prova
delle annotazioni contabili sull’estratto conto relative alle operazioni
compiute, con ciò ponendo una presunzione circa il loro compimento. Ed infatti “…In tema di
prova del credito fornita da un istituto bancario va distinto l’estratto di
saldaconto - dichiarazione unilaterale di un funzionario della banca
creditrice accompagnata dalla certificazione della sua conformità alle
scritture contabili e da un’attestazione di verità e liquidità del credito –
dall’ordinario estratto conto che è funzionale a certificare le movimentazioni
debitorie e creditorie intervenute dall’ultimo saldo, con le condizioni
attive e passive praticate dalla banca. Il saldaconto, infatti, riveste
efficacia probatoria nel solo procedimento per decreto ingiuntivo
eventualmente instaurato dall’istituto, mentre l’estratto - conto, trascorso
il debito periodo di tempo dalla sua comunicazione al correntista, assume
carattere di incontestabilità ed è, conseguentemente, idoneo a fungere da
prova anche nel successivo giudizio contenzioso instaurato dal cliente.” (da ultimo Cass. civ., I, n. 2751/02 e Cass. civ., I, n.
14234/03, peraltro con riferimento a decreti ingiuntivi emanati prima
dell’entrata in vigore dell’art. 50 D.l.vo n. 385/93). Nel caso di specie il decreto ingiuntivo è stato emesso sulla
base del solo ultimo estratto conto da cui si evince – di fatto – il mero
saldo passivo finale. È vero che su di esso è stata apposta l’attestazione di cui
all’art. 50 D.l.vo n. 385/93. E tuttavia di fatto costituisce un semplice saldaconto non
consentendo di ricostruire il complessivo rapporto, ma attestandone solo il
risultato finale. Se ciò fosse sufficiente sarebbe chiaramente elusa la ratio della citata norma e frustrato
lo scopo di dare prova delle movimentazioni debitorie e creditorie
intervenute dall’ultimo saldo, con le condizioni attive e passive praticate
dalla banca. Il decreto ingiuntivo è pertanto nullo. E tuttavia tale decisione non esaurisce l’oggetto della presente
controversia. Il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, infatti, si
sovrappone a quello sulla legittimità del decreto opposto, nel senso che
l’eventuale difetto delle condizioni per l’emissione del decreto, ed in
particolare la mancanza dei requisiti probatori voluti dalla legge, determina
sì la caducazione del decreto stesso, ma non preclude il giudizio sul merito
della controversia nella fase di opposizione. Più in generale la fase di opposizione del decreto ingiuntivo
non ha solo quale oggetto la legittimità del decreto stesso, ma la
sussistenza o meno del credito monitoriamente ingiunto e, quindi, il suo
accertamento sul piano sostanziale, secondo le regole probatorie ordinarie
(per tale complessiva ricostruzione dell’oggetto della fase di opposizione a
decreto ingiuntivo, per tutte, Cass. civ., SS.UU., n. 7448/93). Quanto al merito, l’opposizione è solo in parte fondata e, come
tale, merita di essere accolta nei limiti di seguito precisati. Per chiarezza di discorso devono anzitutto essere trattate
separatamente le diverse questioni prospettate: 1) l’addebito contestato; 2)
la decorrenza delle valute; 3) la misura degli interessi nella duplice
contestazione, il rinvio agli usi e la loro capitalizzazione trimestrale; 4)
la commissione di massimo scoperto. Circa l’addebito contestato afferma l’opponente che sarebbe
stato compiuto dalla banca in seguito ad un’operazione posta in essere da una
persona da lui non autorizzata, e dunque illegittimamente. Contesta la banca tale circostanza, affermando l’esistenza
dell’autorizzazione. Ritiene comunque che tale difesa sia stata proposta
tardivamente nel giudizio perché il Ferruccio non ha mai contestato le
risultanze del relativo estratto conto, inviatogli nel termine semestrale posto
a pena di decadenza, da cui l’addebito risulta per esservi stato regolarmente
annotato. Tale ultima difesa è infondata. Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, il
correntista può contestare l’esistenza e la legittimità delle singole
operazioni, in difformità a quanto annotato sull’estratto conto, anche in
assenza di impugnazione del medesimo nel termine semestrale previsto. Tale omessa impugnazione preclude solo la contestazione del
fatto dell’annotazione contabile in sé, non anche della sottostante operazione
compiuta sul conto corrente di corrispondenza. Ed infatti “…La mancata
contestazione dell’estratto conto e la connessa implicita approvazione di
tutte le operazioni bancarie regolate nel conto stesso, attesa la natura
sostanzialmente confessoria delle annotazioni in esso riportate, non comporta
infatti l’inammissibilità di censure attinenti alla validità e l’efficacia
dei rapporti obbligatori da cui scaturiscono le partite inserite nel conto,
in quanto in tal caso l’impugnativa, non essendo limitata alla contestazione
di accrediti e di addebiti sotto il profilo contabile, non è direttamente
collegata all’estratto conto trasmesso dalla banca.” (da ultimo, ma a
conferma di un orientamento ormai risalente, Cass. civ., I, n. 18626/03). La contestazione dell’addebito è dunque possibile e tuttavia,
nel caso di specie, infondata. A tale proposito, però, devono anzitutto farsi alcune premesse
sul contratto di conto corrente bancario. Come è noto, il codice civile non disciplina espressamente alcun
contratto di conto corrente bancario, ma solo operazioni bancarie in conto
corrente agli artt. 1852 e seguenti, intese quali operazioni caratterizzate
dalla particolare modalità della loro contabilizzazione. Le singole operazioni sono dunque costituite da addebitamenti ed
accreditamenti, termini con cui sono solitamente designati non solo
versamenti e prelievi, ma anche le rimesse per corrispondenza, gli
inserimenti di crediti, gli ordini di prelevamento e di giroconto. E tuttavia la maggioranza della dottrina e la giurisprudenza
della Suprema Corte si riferiscono al conto corrente bancario anche in
un’altra accezione, quella contrattuale, intendendo con tale espressione un
vero e proprio contratto o una pluralità di contratti collegati, cui danno il
nome – appunto – di conto corrente di corrispondenza (così detto perché un tempo
le banche erano solite comunicare per posta ai propri clienti gli
addebitamenti o gli accreditamenti delle somme). La ragione di tale omissione non è nota: la prassi bancaria
conosceva già tale contratto prima dell’entrata in vigore dell’attuale codice
ed anzi – vigente l’abrogato codice di commercio – la dottrina discusse a
lungo delle sue differenze con quello ordinario e dell’applicabilità ad esso
delle norme di tale ultimo contratto, soprattutto con riferimento all’effetto
novativo delle rimesse sul conto ordinario ex art. 345 cod. comm. e delle
relative conseguenze in tema di estinzione delle garanzie. E tuttavia - nonostante gli auspici di autorevoli studiosi del
tempo - né la legge bancaria del 1936 né il nuovo codice civile del 1942 lo
disciplinarono espressamente. La stessa relazione al Re, accompagnatoria del nuovo codice,
mostrò di avere ben chiara l’esistenza del contratto, distinto da tutti gli
altri contratti bancari, ed in particolare la funzione di cassa che con esso
la banca svolgeva a favore del cliente, ma tale consapevolezza non si
tradusse poi in quel riconoscimento normativo che sarebbe stato lecito
aspettarsi. Così il contratto di conto corrente bancario ha continuato ad essere
non tipizzato dal legislatore, ma elaborato dalla riflessione dottrinale e
dalle decisioni dei giudici. Senza entrare nello sfaccettato dibattito dottrinale sulla sua
natura, se appunto di contratto complesso atipico dominato dalle regole del
mandato o vero e proprio fenomeno di collegamento negoziale fra due o più
contratti, uno dei quali generalmente il mandato, o ancora di contratto
normativo, l’orientamento della giurisprudenza di legittimità che questo
giudice condivide – e con essa anche della maggior parte della dottrina –
vede in tale fattispecie un unico contratto innominato misto, costituito da
una pluralità di elementi riferibili a diversi negozi tipici. In particolare il suo contenuto è costituito appunto dal sevizio
di cassa garantito dalla banca al cliente (Cass. civ., n. 3637/78); il
versamento di somme da parte del correntista e la loro conservazione non
rispondono ad un’autonoma funzione, ma assolvono al ruolo della somministrazione
dei mezzi necessari per l’espletamento degli incarichi dati alla banca. Il tratto qualificante dell’oggetto di tale contratto diviene
quindi l’obbligo da parte della banca di provvedere per conto del cliente, su
suo ordine diretto o indiretto, a pagamenti e riscossioni nei confronti dei
terzi. Ciò configura un vero e proprio mandato senza rappresentanza
(Cass. civ. n. 5325/91) cui la banca è obbligata, tranne che per quegli
incarichi che esulino dalle forme d’uso di utilizzazione delle disponibilità
esistenti sul conto (Cass. civ., n. 2089/72). Non a caso secondo un’autorevole opinione dottrinale, entro tali
limiti si può configurare un vero e proprio obbligo della banca, che non può
rifiutare l’esecuzione dell’ordine del cliente. A tale fine il contratto non può che prevedere un’implicita
autorizzazione preventiva e generica del correntista intesa a legittimare
nelle propria sfera giuridica l’incidenza degli effetti dell’accreditamento
(già Cass. civ., n. 31/78, da ultimo Cass. civ., n. 12489/00). Se così è, nel caso di specie deve ritenersi legittimo il compimento
dell’operazione da parte dell’istituto di credito convenuto. Dall’esame dei documenti prodotti dalla banca convenuta emerge
come l’autorizzazione al compimento delle operazioni sul conto corrente a
Ferruccio Brunetta sia stata data dallo stesso attore, titolare del conto. D’altra parte la prospettata querela di falso non è stata
presentata e, pertanto, non v’è motivo di dubitare che la sottoscrizione del
documento appartenga al Ferruccio. Il notaio Rossi Fabrizio, escusso quale testimone, ha riferito
di essere stato il trattario dell’assegno cui l’operazione di addebito si
riferisce, per prestazioni professionali compiute a favore dello stesso
attore. La banca ha quindi legittimamente compiuto l’addebito, pagando
l’assegno, in adempimento del suo obbligo di mandataria del Ferruccio
nell’esecuzione del contratto di conto corrente. Tale difesa dell’attore deve pertanto essere rigettata. Circa inoltre la decorrenza delle valute, lamenta l’opponente la
loro difformità dalla date delle singole operazioni di accredito sul conto
corrente. La censura, per come formulata, deve ritenersi inammissibile
perché generica. Anche a prescindere dal fatto che è stata compiuta per la prima
volta nella comparsa conclusionale, essa non specifica in alcun modo in che
cosa consisterebbero le singole difformità e, soprattutto, a quali specifiche
valute si riferirebbero. Tale difesa è pertanto inammissibile. Devono invece essere accolte quelle relative alla determinazione
della misura degli interessi, sia con riferimento alla loro determinazione
con rinvio agli usi su piazza, sia con riferimento alla loro capitalizzazione
trimestrale. Circa il rinvio agli usi, la banca convenuta non contesta
l’esistenza della pattuizione; ne afferma però la legittimità, potendo la
misura degli interessi essere compiuta anche per relationem, appunto con rinvio agli usi esistenti “sulla
piazza”. Fino all’entrata in vigore dell’art. 120 L. n. 154/92 (poi
novellato dall’art. 25 D.l.vo n. 342/99 che ha aggiunto due commi al primo
comma di tale articolo), era invalso l’uso da parte delle banche di prevedere
nelle condizioni generali di contratto il saggio dell’interesse ultralegale
con riferimento alle condizioni usualmente praticate sulla piazza. Il divieto di tale rinvio da parte dell’art. 120/2 della citata
legge ha reso nulle tali clausole e tuttavia, non essendo la legge
retroattiva, resta la questione - invero ormai residuale, ma rilevante nel
caso di specie poiché il contratto di conto corrente è stato concluso fra le
parti il 4/12/90 - delle clausole afferenti a contratti stipulati
anteriormente all’entrata in vigore della legge, dovendosi fare applicazione
del principio generale per cui le condizioni di validità e di efficacia del
contratto devono essere, almeno di regola, valutate con riferimento alle
norme vigenti al momento della sua conclusione. D’altra parte un tentativo, invero maldestro, di salvare
espressamente tali clausole con riferimento ai contratti già esistenti,
tentativo compiuto dal comma successivo della medesima norma (art. 120/3), è
stato vanificato dal Giudice delle leggi che, investito della questione di
legittimità costituzionale, lo ha ritenuto in contrasto con gli artt. 3, 24,
76, 101, 102 e 104 Cost. e lo ha conseguentemente espunto dall’ordinamento
(Corte cost., n. 463/00). Il divieto resta dunque per i contratti conclusi dopo la citata
novella e all’interprete si pone il problema della validità di quelli
conclusi prima di essa. L’orientamento giurisprudenziale più risalente riteneva
legittime tali clausole, peraltro richiamate anche dall’art. 7 N.U.B. con
riferimento alla misura degli interessi dei contratti di apertura di credito:
da un lato le parti nel contratto indicavano criteri ritenuti certi ed
oggettivi che consentivano la concreta quantificazione del tasso di interesse
– così rispettando l’art. 1346 c.c. – e, dall’altro, nulla ostava alla sua
determinazione per relationem,
poiché l’accordo di cartello su scala nazionale escludeva a priori ogni
influenzabilità della stessa misura del tasso da parte della singola banca
contraente. Questo l’orientamento pacifico della giurisprudenza, anche di
legittimità. E tuttavia la stessa giurisprudenza, con orientamento invero
molto più convincente, ha mutato idea. Dapprima ha stabilito i criteri per stabilirne la
validità/invalidità con accertamento da compiersi caso per caso, ritenendo
che nel caso di rinvio agli usi su piazza, si debba accertare, nel singolo
rapporto dedotto, se l’elemento estrinseco di riferimento permetta una sicura
determinabilità della prestazione di interessi - pur nella variabilità dei
tassi nel tempo, necessaria per l’esigenza di favorire la fluidità dei
rapporti bancari - senza successive valutazioni discrezionali da parte della
banca (Cass. civ. n. 4696/98 e Cass. civ., n. 5675/01). Poi - in modo più netto - è giunta alla conclusione che tali
clausole sono nulle poiché, riferendosi genericamente agli interessi
usualmente praticati su piazza, non distinguono fra le varie categorie di
essi e dunque non consentono di stabilire a quale previsione le parti abbiano
in concreto inteso riferirsi (inizialmente Cass. civ., n. 2103/96). In particolare la Suprema Corte ha ritenuto che se può ritenersi
osservato il precetto dell’art. 1284 c.c. - che richiede la forma scritta per
la convenzione di interessi al tasso superiore alla misura legale - ogni
volta che, “pur in difetto di espressa
indicazione in cifre degli interessi pattuiti, le parti si siano richiamate
per iscritto a criteri prestabiliti e ad elementi estrinseci, obiettivamente
individuabili, che consentano la concreta determinazione del tasso convenzionale
(Cass. civ. n. 4605/96, Cass. civ. n. 9227/95 e Cass. civ. n. 6113/94), non
altrettanto può dirsi con riguardo alla clausola che si limiti a fare
riferimento alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito
sulla piazza” (Cass. civ., n. 9465/00). Essa non è infatti sufficientemente univoca - e dunque posta in
violazione del disposto dell’art. 1346 c.c. - e non giustifica pertanto la
pretesa al pagamento di interessi in misura superiore a quella legale poiché,
data la esistenza di diverse tipologie di tassi, non consente per sua
genericità di stabilire a quale previsione le parti abbiano inteso
concretamente riferirsi (ancora Cass. civ. n. 9465/00; Cass. civ. n. 7871/98,
Cass. civ. n. 6247/98, Cass. civ., n. 4696/98, Cass. civ., n. 11042/97 e
Cass. civ., n. 10657/96). E il giudizio di sufficienza del riferimento della clausola alle
condizioni di piazza, dovendo essere coordinato con accordi di cartello, non
può essere mantenuto se tali accordi contengono diverse tipologie di tassi o
addirittura siano venuti meno come parametro centralizzato e vincolante
(Cass. civ., n. 2644/89). La clausola non sfugge pertanto al giudizio invalidante che
consegue alla sua contrarietà al disposto dell’art. 1346 c.c. (per tale
complessiva ricostruzione da ultimo Cass. civ., n. 1287/02). In ogni caso eventuali clausole contrattuali stipulate
anteriormente all’entrata in vigore della disciplina dettata dalla legge
sulla trasparenza bancaria n. 154/92 che, per la pattuizione di interessi
dovuti dalla clientela in misura superiore a quella legale, si limitino fare
riferimento alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito
sulla piazza, sono divenute inoperanti a partire dal 9/7/92, data di acquisto
dell’efficacia dell’art. 11 della legge stessa (e cioè dopo il decorso di
centoventi giorni dall'entrata in vigore di quest’ultima, avvenuta il
10/3/92). Ed infatti la previsione imperativa posta dall’art. 4 della
citata legge, poi trasfuso nell’art. 117 D.l.vo n. 385/93, laddove sancisce
la nullità delle clausole di rinvio agli usi per la determinazione dei tassi
di interesse, se non incide, in base ai principi regolanti la successione
delle leggi nel tempo, sulla validità delle clausole contrattuali inserite in
contratti già conclusi, impedisce tuttavia che esse possano produrre per
l’avvenire ulteriori effetti nei rapporti ancora in corso (Cass. civ., n.
4490/02). Tali devono intendersi i rapporti, anteriormente costituiti e
non ancora esauriti con riferimento alla data di inizio dell’operatività
della norma sopravvenuta, per non avere il debitore adempiuto alla propria
obbligazione indipendentemente dalla pregressa “chiusura” del conto corrente
bancario, poiché il mutamento normativo “impinge
sulle stesse caratteristiche dei sinallagma contrattuale, generatore di
conseguenze obbligatorie protraentisi nel tempo” (da ultimo Cass. civ.,
n. 4490/02, Cass. civ., n. 6258/02, Cass. civ., n. 13739/03 e Cass. civ., n.
12222/03). Le conseguenze di tale orientamento sono: 1) la nullità della
singola clausola non è tale da travolgere l’intero contratto ex art. 1419/1
c.c.; 2) al contratto privato della clausola nulla, e dunque radicalmente
inefficace ab initio, si applicano
gli interessi in misura legale e dunque: a) quella calcolata ex art. 1284
c.c. fino all’entrata in vigore della L. n. 154/92; b) quella calcolata ex
art. 5 L. n. 154/92 e poi ex art. 117 L. n. 385/93 – norme peraltro identiche
nel contenuto – dopo l’entrata in vigore di tale legge; da quel momento
infatti la misura legale degli interessi, per i contratti bancari, deve
ritenersi quella prevista dalle citate norme, in presenza ovviamente dei
presupposti della loro applicabilità. Esse si pongono quali norme inevitabilmente speciali rispetto all’art.
1284 c.c. nella determinazione del saggio legale della misura degli
interessi. Ex art. 5 L. n. 154/92: “1.Nelle
ipotesi di nullità di cui all’art. 4, comma 4, nonché nei casi di mancanza di
specifiche indicazioni, si applicano: a) il tasso nominale minimo e quello
massimo dei buoni ordinari del Tesoro annuali o di altri titoli similari
eventualmente indicati dal Ministro del Tesoro, emessi nei dodici mesi precedenti
la conclusione del contratto rispettivamente per le operazioni attive e per
quelle passive; b) gli altri prezzi e condizioni resi
pubblici nel corso della durata del rapporto per le corrispondenti categorie
di operazioni e servizi; in mancanza di pubblicità nulla è dovuto.” Il suo contenuto è stato poi integralmente trasfuso nell’art. 117
D.l.vo n. 385/93. E tuttavia circa la successione delle leggi nel tempo (e dunque
della norma applicabile ratione
temporis) ex art. 165/2 D.l.vo n. 385/93 “sono abrogati ma continuano a essere applicati fino alla data di
entrata in vigore dei provvedimenti emanati dalle autorità creditizie ai
sensi del presente decreto legislativo: … la legge 17 febbraio 1992 n. 154,
fatta eccezione per l’art. 10”. Poiché la delibera del CICR cui la norma
fa riferimento è stata adottata solo il 4/3/03, con efficacia dall’1/10/03, è
solo da quest’ultima data che può ritenersi vigente l’art. 117 citato
(dovendosi prima di tale data fare riferimento agli artt. 4 e 5 L. n.
154/92), quantomeno per le parti che hanno avuto attuazione con tale
delibera. Sono dunque gli art. 4 e 5 citati ad applicarsi formalmente al
caso di specie. Due sono i problemi sollevati dalle parti circa la corretta
interpretazione di tali norme: la misura degli interessi ancorata al momento
della conclusione del contratto e la specificazione di quali siano le
operazioni attive e passive cui fanno riferimento. Quanto alla prima questione deve rilevarsi come risulti in
contrasto con la loro ratio
un’interpretazione meramente letterale. Ed infatti l’art. 5 L. n. 154/92, nasce perché il legislatore ha
inteso sostituire il tasso di interesse previsto dai contratti bancari e
venuto meno in seguito alla declaratoria di nullità della clausola che lo
contiene ad un altro che sia in qualche modo legato all’andamento del mercato
dei tassi di interesse. Questo è il significato che ha il complesso meccanismo di
calcolo della sua misura, con riferimento alla media delle aste dei BOT degli
ultimi dodici mesi. Dunque ancorare tale tasso al momento della conclusione
del contratto o, per i contratti conclusi anteriormente all’entrata in vigore
della legge, a quello della stessa entrata in vigore, se appare ragionevole
per i contratti bancari che contengano un’unica operazione di finanziamento,
non altrettanto può dirsi per quelli cosiddetti di durata, ove le operazioni
si susseguono nel tempo e v’è la necessità di non cristallizzare in un
preciso momento la determinazione della misura degli interessi. Tipico è il caso – appunto – del contratto di conto corrente
bancario di corrispondenza. Prevedere per tale contratto un tasso di interesse calcolato ex
art. 5 L. n. 154/92 con riferimento al momento della sua stipulazione
significa applicare per tutta la durata del contratto quel tasso, anche dopo
lunga distanza di tempo, in un momento in cui il rendimento dei BOT è
completamente diverso da quello originario. Se dunque la ratio
della disposizione è quella di agganciare la misura degli interessi al costo
del denaro in senso lato con riferimento al momento in cui le singole
operazioni nei contratti bancari sono state compiute, appare preferibile
un’altra interpretazione, e cioè quella per cui la misura degli interessi
varia nel corso del rapporto e la media dei tassi di rendimento dei BOT degli
ultimi dodici mesi è calcolata non con riferimento alla conclusione del
contratto o all’entrata in vigore della legge, ma al momento in cui è stata
compiuta la singola operazione. Nel caso del conto corrente bancario di corrispondenza, quindi,
gli interessi calcolati ex art. 5 L. n. 154 (poi art. 117 D.l.vo n. 385/93)
devono ritenersi quelli determinati nell’ammontare previsto dal meccanismo di
tale norma, con riferimento al tasso minimo e massimo dei BOT calcolato
prendendo a riferimento l’anno della loro emissione anteriore ad ogni
operazione. Quanto alla seconda questione, invece, operazioni attive e
passive devono essere intese con riferimento alla banca, e dunque
rispettivamente quelle di erogazione del credito e di raccolta del risparmio;
se pure tale interpretazione può risultare sfavorevole ad essa, come rilevato
dalla stessa convenuta nelle sue difese, la natura sanzionatoria della norma
convince della bontà di tale opzione ermeneutica: il tasso di interessi
previsto, infatti, consegue pur sempre alla nullità della clausola
contrattuale che lo aveva stabilito pattiziamente. Se così è, nel caso di specie deve ritenersi nulla la clausola
del contratto che ha determinato la misura degli interessi con rinvio agli
usi e, pertanto, alla luce delle considerazioni sopra svolte, gli interessi
dovuti devono essere rideterminati con riferimento al tasso legale come sopra
determinato, e cioè ex art. 1284 c.c. fino all’8/7/92 ed ex art. 5 L. n.
154/92 - nell’interpretazione prospettata - dal 9/7/92. Circa la capitalizzazione trimestrale dei medesimi interessi
anche in tal caso la banca convenuta non contesta l’esistenza della
pattuizione; ne afferma però la legittimità, avendo ad oggetto un uso
normativo, come tale legittimo ex art. 1283 c.c. Il divieto di pattuizione degli interessi sugli interessi è stabilito
– in linea generale – dall’art. 1283 c.c., il quale consente la
capitalizzazione solo a determinate condizioni: dal giorno della domanda
giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza e
sempre che siano scaduti da almeno sei mesi. La norma fa poi salvi gli usi contrari ed è su questa “clausola
di riserva” che la giurisprudenza aveva sempre ritenuto legittima la loro
capitalizzazione trimestrale nei contratti di conto corrente. Poiché gli usi cui l’art. 1283 c.c. si riferisce sono quelli
normativi, la giurisprudenza ravvisava nella previsione generalizzata di tale
forma di capitalizzazione una vera e propria consuetudine consentita dalla
norma. Finché con un revirement ormai
noto – anche per l’allarme creato nell’intero sistema bancario italiano – ha
cambiato radicalmente opinione, ravvisando la fonte della prassi di capitalizzare
trimestralmente gli interessi un uso negoziale, come tale inidoneo a derogare
all’art. 1283 c.c. (da apripista ha fatto Cass. civ., n. 2374/99, cui sono
seguite Cass. civ., n. 3096/99 e Cass. civ., n. 12507/99). Questi i diversi passaggi del ragionamento della Corte di
Cassazione. Anzitutto l’art. 1283 c.c. ammette l’anatocismo a determinate
condizioni. La disposizione, pacificamente ritenuta di carattere imperativo e
di natura eccezionale, contiene due norme: con la prima limita la possibilità
che interessi scaduti possano produrre ulteriori interessi alla sola ipotesi
di interessi dovuti per almeno un semestre, con la seconda la produzione di
ulteriori interessi è subordinata alla formulazione di una domanda giudiziale
(che ne determina anche la decorrenza) ovvero al perfezionamento di una
convenzione successiva alla scadenza degli interessi stessi. La norma ammette inoltre la possibilità di deroga da parte di
usi contrari, ma deve trattarsi di veri e propri usi normativi (artt. 1 ed 8
delle disposizioni sulla legge in generale) e non di semplici usi negoziali
ex art. 1340 c.c. o interpretativi ex art. 1368 c.c. In materia non hanno quindi rilievo le cosiddette norme bancarie
uniformi predisposte dall’associazione di categoria (Associazione Bancaria
Italiana - ABI), in quanto esse non hanno natura normativa, ma soltanto
pattizia, trattandosi di proposte di condizioni generali di contratto
indirizzate dall’Associazione alle banche associate. Da ciò consegue che occorre verificare l’esistenza di una
consuetudine quale fonte di diritto, in base alla quale nei rapporti tra
banca e cliente gli interessi a carico di quest’ultimo possano essere
capitalizzati (e quindi possano produrre ulteriori interessi) ogni trimestre. Tale indagine - secondo la Corte - conduce a risultati negativi,
in difetto di elementi idonei a concretizzare la consuetudine suddetta. Ed infatti che gli usi, richiamati in apertura dell’art. 1283
c.c., debbano avere carattere normativo non è revocabile in dubbio. Lo si
desume dall’effetto ad essi attribuito di derogare alla pur limitativa
disciplina contenuta nella stessa norma e dalla stessa formula adottata dal legislatore.
Anche la giurisprudenza formatasi sulla base dell’indirizzo
precedente ha sempre peraltro attribuito agli usi in questione carattere
normativo (Cass. civ., n. 6631/81, Cass. civ, n. 5409/83, Cass. civ, n.
4920/87, Cass. civ., n. 3804/88, Cass. civ., n. 7571/92, Cass. civ., n.
9227/95 e Cass. civ., n. 12675/98). A tale proposito deve rilevarsi che i requisiti fondamentali
dell’uso normativo sono due: uno oggettivo, consistente nella uniforme e
costante ripetizione di un dato comportamento; l’altro soggettivo o
psicologico, che consiste nella consapevolezza di prestare osservanza, operando
in un certo modo, ad una norma giuridica. Il requisito soggettivo è contestato da una parte della dottrina
e tuttavia da esso non si può prescindere, senza rendere di difficile
percezione l’essenza del fenomeno consuetudinario giuridicamente rilevante e
non ridotto al rango di mera prassi. A tale uso è attribuita specifica forza normativa (ancorché si
tratti di fonte terziaria del diritto, in quanto sottordinata alla legge e ai
regolamenti), cosicché deve rivestire i connotati della generalità e
dell’astrattezza. In questo contesto per affermare che l’anatocismo, sotto forma
di capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dai clienti alla
banca, costituisca applicazione di un uso normativo non è sufficiente
rilevare che esso trova generale applicazione nei rapporti tra banche e
clienti. Ciò deriva dagli schemi contrattuali predisposti dalla banche
(in base alle c.d. norme bancarie uniformi, aventi però natura pattizia) e
può condurre a ravvisare un uso negoziale, ma non basta per identificare un
uso normativo. Non è affidabile alla sola costanza e generalità di una prassi,
in concreto ineludibile se si vuol porre in essere un certo tipo di rapporti,
perché richiesta da uno dei contraenti mediante clausole uniformi e
predisposte. Deve essere anche sostanziato dalla convinzione o consapevolezza
di attuare una regola vertente su materia giuridicamente rilevante per la
natura delle situazioni da disciplinare. E tale convinzione o consapevolezza non deve essere unilaterale,
ma costituire opinione comune dei contraenti in un determinato settore. Nell’ambito dei contratti bancari mancano elementi idonei a
ravvisare tale elemento, segnatamente per quanto concerne il modus operandi del cliente
dell’istituto di credito, cliente che di regola stipula secondo schemi
contrattuali predisposti dalla banca. In particolare dalla comune esperienza emerge che l’inserimento
di tali clausole è consentito da parte dei clienti non in quanto ritenute
conformi a norme di diritto oggettivo già esistenti o che sarebbe auspicabile
che fossero esistenti nell’ordinamento, ma in quanto comprese nei moduli
predisposti dagli istituti di credito, in conformità con le direttive
dell’associazione di categoria, insuscettibili di negoziazione individuale e
la cui sottoscrizione costituisce al tempo stesso presupposto indefettibile
per accedere ai servizi bancari. Atteggiamento psicologico ben lontano da quella spontanea
adesione a un precetto giuridico in cui, sostanzialmente, consiste l’opinio iuris ac necessitatis, se non
altro per l’evidente disparità di trattamento che la clausola stessa
introduce tra interessi dovuti dalla banca e interessi dovuti dal cliente. Ed il fatto stesso che nei contratti si avverta la necessità
d’inserire l’anatocismo sotto forma di capitalizzazione trimestrale degli
interessi, lungi dal dimostrare l’esistenza di un uso normativo dimostra
piuttosto il contrario. Gli usi normativi, richiamati espressamente dal citato art. 1283
c.c. (art. 8 disp. sulla legge in generale), operano sul medesimo piano di
tale norma. Essi hanno la stessa natura delle regole stabilite direttamente
dal legislatore, con la conseguenza che sono, come le norme di legge,
soggetti al principio iura novit curia,
cosicché se ne può fare applicazione anche nel giudizio di legittimità ed
anche indipendentemente dalle allegazioni delle parti. Non sarebbe quindi necessario fare oggetto di specifica
previsione contrattuale la capitalizzazione trimestrale degli interessi, se
essa trovasse fonte in un uso normativo; al più potrebbe bastare il richiamo
all’uso come fonte di diritto. Tale previsione invece si comprende appunto perché, in assenza
di una regola giuridica, si è ritenuto necessario trovare un fondamento. In particolare poi il Giudice di legittimità, con la già citata
sentenza inaugurale del nuovo indirizzo, ha spiegato in modo assolutamente
convincente l’assenza di usi normativi non solo con riferimento al periodo
successivo all’entrata in vigore dell’attuale codice civile, ma anche sotto
il vigore di quello precedente del 1865. Ha infatti affermato che: “…
in materia, non hanno, quindi, alcun rilievo, in quanto tali (indipendente
cioè dalla loro eventuale efficacia probatoria di un preesistente uso normativo
conforme, di cui si tratterà oltre), le cosiddette norme bancarie uniformi
predisposte dall'associazione di categoria (Associazione bancaria italiana -
A.B.I.), che non hanno natura normativa, ma solo pattizia, nel senso che si
tratta di proposte di condizioni generali di contratto indirizzate
dall’associazione alle banche associate (la cui validità, peraltro, in relazione
alla disciplina comunitaria e interna della concorrenza, è stata di recente,
per alcuni aspetti non secondari, messa in discussione dalle autorità
amministrative di vigilanza). Come tali, quindi, le c.d. norme bancarie
uniformi assumono rilevanza nel singolo rapporto contrattuale con il cliente
in quanto siano richiamate nel contratto stesso, secondo la disciplina
dettata dagli articoli 1341 e 1342 c.c.”; ed ancora che oggetto dell’indagine
deve essere una puntuale norma consuetudinaria in tal senso “… essendo
evidente che la specifica e puntuale disciplina limitativa legale può essere
sostituita, per volontà del legislatore, solo da una normativa
consuetudinaria altrettanto specifica e puntuale e non da una generica prassi
derogatoria, che, proprio a causa della sua genericità, non potrebbe mai
costituire fonte di diritto obbiettivo. D’altra parte, se l’unico contenuto
di una regola consuetudinaria fosse quello di ammettere l’anatocismo nei
rapporti tra banca e cliente, si tratterebbe di una regola inutile, in quanto
puramente ripetitiva della norma di legge, che, si ripete, non contiene un
divieto assoluto, ma, all’opposto, afferma l’ammissibilità dell’anatocismo,
sia pure nei limiti della stessa norma indicati. Lo specifico oggetto di indagine è,
pertanto, come esattamente propone il ricorrente, l’esistenza o non di una
consuetudine in base alla quale nei rapporti tra banca e cliente, gli
interessi a carico del cliente possano essere capitalizzati (e quindi possano
produrre ulteriori interessi) ogni trimestre. Ora, dall’orientamento
giurisprudenziale richiamato, non emerge che questa Corte abbia in precedenza
affermato l’esistenza di una norma consuetudinaria di questa precisa portata,
essendosi limitata ad affermare, sulla base di un dato di comune esperienza,
che l’anatocismo trova generale applicazione nel campo delle relazioni tra
istituti di credito e clienti. Anzi, la dottrina formatasi nel
vigore della disciplina anteriore all’entrata in vigore del nuovo codice,
anche sulla base della giurisprudenza dell’epoca, affermava che gli usi
normativi in materia commerciale, fatti salvi dall’art. 1232 del c.c. del
1865, erano nel senso che i conti correnti venivano chiusi ad ogni semestre e
che al momento della chiusura potevano essere capitalizzati gli interessi
scaduti. Inoltre, anche tra i primi e più autorevoli commentatori dell’art.
1283 del codice vigente, si affermava che l’uso contrario richiamato da detta
disposizione prevedeva che divenisse produttivo di interessi solo il saldo
annuale o semestrale del conto corrente. Non v’è alcun elemento, quindi, che
autorizzi a ritenere esistente, prima del 1942, un uso normativo che autorizzava
la capitalizzazione trimestrale degli interessi a carico del cliente di un
istituto di credito.” A ciò ha aggiunto che “…
la capitalizzazione trimestrale degli interessi scaduti a debito del cliente
è stata prevista in realtà per la prima volta dalle c.d. norme bancarie
uniformi in materia di conto corrente di corrispondenza e servizi connessi
predisposti dall’ABI con effetto dal 1 gennaio 1952. La clausola sei, dopo
avere affermato che in via normale i rapporti di dare e avere sono regolati
annualmente, portando in conto (e cioè capitalizzando) gli interessi al 31
dicembre di ogni anno, disponeva che i conti che risultino anche saltuariamente
debitori dovevano essere regolati invece, in via normale. ogni trimestre e
con la stessa cadenza gli interessi scaduti producevano ulteriori interessi,
al tasso da determinarsi tenendo conto delle condizioni praticate usualmente
dalle aziende di credito operanti sulla piazza. Non è stata mai accertata, invece,
dalla Commissione speciale permanente presso il Ministero dell’industria, ai
sensi del D.L.vo del C.p.S., 27/1/47, n. 152 (modificato con la L. 13/3/50,
n. 115) l’esistenza di uso normativo generale contenuto corrispondente alla
clausola di cui si è detto. Tale uso generale è stato oggetto di accertamento
e pubblicazioni in raccolte di natura meramente privata. Per quanto riguarda, inoltre,
l’accertamento di usi locali da parte di alcune Camere di commercio
provinciali, ai sensi del combinato disposto degli artt. 34, 39-40 del r.d.
20/9/34, n. 2011 e dell'art. 2, del D.L.vo luogoten. 21/9/44, n. 315, deve
rilevarsi che si tratta di accertamenti avvenuti tutti in epoca successiva al
1952 e ciò esclude che, in concreto, possa essere attribuita alla indicata
clausola delle c.d. norme bancarie uniformi in vigore dal 1952 una funzione
probatoria di usi locali preesistenti. Peraltro, la presunzione derivante
dall’inserimento nelle raccolte delle camere di commercio, di cui all’art. 9
delle disp. prel. al c.c. riguarda l’esistenza dell’uso e non anche la
natura, normativa o negoziale. Anzi, in concreto, il rapporto temporale che è
intercorso tra la predisposizione delle c.d. norme bancarie uniformi in tema
di conti correnti di corrispondenza e le deliberazioni camerali con le quali
sono stati accertati usi locali di contenuto corrispondente, può autorizzare
la presunzione che l’accertamento dell’uso locale, sia conseguenza del
rilievo di prassi negoziali conformi alle condizioni generali predisposte
dall’ABI, prassi alle quali mai potrebbe riconoscersi efficacia di fonti di
diritto obbiettivo, se non altro per l’evidente difetto dell’elemento
soggettivo della consuetudine, potendo al massimo ritenersi che si possa
trarre di clausole l’uso ai sensi dell’art. 1340 c.c. A conferma della
fondatezza di tale presunzione può ricordarsi che nella raccolta degli usi
bancari curata dalla Camera di commercio di Firenze, edizione 1960, l’uso
relativo alla capitalizzazione trimestrale degli interessi a carico del
cliente è espressamente definito come uso negoziale.” Dunque la relativa clausola deve essere ritenuta nulla, perché,
trascurando le limitazioni fissate dall’art. 1283 c.c., viene a porsi in
contrasto con tale norma imponendo una capitalizzazione trimestrale anteriore
alla scadenza degli interessi, senza la copertura di un uso normativo. La conseguenza di tale declaratoria di nullità è che nessuna
capitalizzazione è consentita, né trimestrale né con periodicità differente. Ed infatti non può che tornare a farsi applicazione dell’art.
1283 c.c. da cui è originato tutto il ragionamento. Se il divieto di
anatocismo è la regola e l’anatocismo l’eccezione, dichiarata la nullità
della clausola che prevedeva la capitalizzazione, ad essa nessun’altra può
essere sostituita, proprio perché non pattuita in forma valida. Non può farsi applicazione dell’art. 1284 c.c. che prevede
l’anno solo come elemento per la determinazione della misura del saggio degli
interessi legali, e dunque con tutt’altra finalità, non anche una qualche
forma di capitalizzazione degli stessi interessi legali. Né può farsi applicazione dell’art. 1831 c.c. dettato con
riferimento al conto corrente ordinario e non richiamato dall’art. 1857 c.c.
in materia di operazioni bancarie in conto corrente. Vi ostano l’espresso richiamo solo di altre norme (artt. 1826,
1829 e 1832 c.c.) ed la conseguente applicazione del principio ubi lex voluti dixit, ubi noluit tacuit. D’altra parte il mancato rinvio è giustificato dal fatto che nel
contratto di conto corrente ordinario il credito non è immediatamente
esigibile, come in quello bancario. Nel caso di specie gli interessi devono quindi essere
rideterminati nel saggio legale - come sopra determinato - senza alcuna
capitalizzazione. Circa la commissione di massimo scoperto afferma la banca
convenuta che essa è stata calcolata secondo l’art. 7 delle N.U.B. e dunque
legittimamente. Poiché tale clausola accede ad un contratto di conto corrente
assistito da un apertura di credito a favore del cliente, secondo una prima
interpretazione essa remunera la messa a disposizione dei fondi da parte della
banca, a prescindere dalla loro concreta utilizzazione, secondo un’altra,
invece, costituisce la controprestazione per il rischio crescente che la banca
assume in proporzione all’ammontare dell’utilizzo concreto dei fondi, secondo
un’altra ancora è un accessorio che si aggiunge agli interessi passivi. È la prima l’interpretazione che pare avere accolto la Suprema
Corte nell’unica sentenza di legittimità che consta sull’argomento. Ed infatti - afferma la Corte - “o tale commissione è un accessorio che si aggiunge agli interessi
passivi - come potrebbe inferirsi anche dall’esser conteggiata, nella prassi
bancaria, in una misura percentuale dell’esposizione debitoria massima
raggiunta, e quindi sulle somme effettivamente utilizzate, nel periodo
considerato - che solitamente è trimestrale - e dalla pattuizione della sua
capitalizzazione trimestrale, come per gli interessi…, o ha una funzione
remunerativa dell’obbligo della banca di tenere a disposizione
dell’accreditato una determina somma per un determinato periodo di tempo,
indipendentemente dal suo utilizzo, come sembra preferibile ritenere anche
alla luce della circolare della Banca d’Italia del primo ottobre 1996 e delle
successive rilevazioni del c.d. tasso di soglia, in cui è stato puntualizzato
che la commissione di massimo scoperto non deve esser computata ai fini della
rilevazione dell’interesse globale di cui alla legge 7 marzo 1996 n. 108, ed
allora dovrebbe esser conteggiata alla chiusura definitiva del conto.” In ogni caso, trattandosi di clausola contrattuale essa deve
essere espressamente prevista dalle parti nel regolamento complessivo del
loro assetto di interessi. Nel caso di specie, invece, nessuna clausola contrattuale di tal
genere è stata prevista, né nel contratto di conto corrente né in quello di
apertura di credito e, pertanto, nulla è dovuto alla banca dall’attore per
tale titolo. In definitiva il credito della B.A.M. s.p.a. nei confronti del
Ferruccio - come accertato dalla consulenza tecnica compiuta - ammonta a
complessive £. 28.303.219, di cui £. 20.109.854 per capitale, £. 8.598.093
per interessi calcolati in misura legale senza alcuna capitalizzazione e £.
754.432 per spese, come risulta dal riepilogo finale dell’allegato n. 16 alla
consulenza tecnica in atti. Poiché peraltro quell’ipotesi dell’elaborato peritale contempla
anche il computo della commissione di massimo scoperto determinata ex art. 5
L. n. 154/92 con capitalizzazione annuale, dalla somma ivi indicata devono
essere sottratte quella di £. 435.931, relativa appunto alla commissione di
massimo scoperto, e quella di £. 96.493 quale quota degli interessi derivante
dalla capitalizzazione della suddetta commissione. D’altra parte gli accertamenti e le valutazioni compiute dal CTU
in relazione alla misura degli interessi e dunque all’ammontare del
complessivo credito, con le precisazioni sopra compiute, appaiono immuni da
vizi logici e coerentemente motivati, oltre che non infirmati da specifiche
contestazioni contrarie delle parti, e pertanto possono essere fatte proprie
da questo giudice. Al pagamento di tale complessiva somma, pari ad €. 14.617,39,
deve essere quindi condannato il convenuto, oltre agli interessi in misura
legale ex art. 5 L. n. 154/92, calcolati sul solo capitale di €. 10.385,87 e con
decorrenza dal 10/9/97 - giorno in cui il Ferruccio è stato messo in mora -
all’effettivo soddisfo. La somma su cui devono
essere calcolati, anzitutto, non può che essere il solo capitale. In presenza del contratto di apertura di
credito che ha reso inesigibile il saldo passivo del conto corrente fino a £.
35.000.000 – questo il limite del fido – gli interessi maturati fino alla chiusura
del conto (9/9/97) non erano scaduti da più di sei mesi al momento della
proposizione della domanda giudiziale (23/9/97) e quindi come tali non sono
produttivi di ulteriori interessi. La loro misura, inoltre, deve essere
determinata ex art. 5 L. n. 154/92,
secondo i criteri già stabiliti, e dunque con riferimento alla media dei
tassi di rendimento dei BOT degli ultimi dodici mesi anteriori alla chiusura
del rapporto di conto corrente avvenuta il 9/9/97. Come già detto, tale norma stabilisce l’ammontare del tasso di
interesse per i contratti di cui al precedente art. 4 e dunque anche a quello
di specie, atteggiandosi in ciò quale norma speciale rispetto all’art. 1284
c.c.: fungendo da disposizione che determina il tasso legale, in tale misura
devono essere calcolati anche gli interessi maturati dopo la chiusura del
rapporto: ex art. 1224 c.c. nelle obbligazioni che hanno ad oggetto una somma
di denaro sono dovuti dal giorno della mora gli interessi legali, anche se
non erano dovuti precedentemente ed anche se il creditore non prova di aver
sofferto alcun danno. La cristallizzazione del tasso d’interesse appare inoltre logicamente
in linea con l’interpretazione dell’art. 5 L. n.154/92 sopra prospettata. Ed infatti la variabilità del tasso in corso di rapporto – per
quanto già detto – trova la sua ragion d’essere proprio nel fatto che il
rapporto è di durata: adeguarlo al “costo del denaro” evita che il
correntista subisca gli effetti di un tasso fisso, cristallizzato al momento
della conclusione del contratto, nonostante la durata del rapporto. Ma sciolto il vincolo contrattuale e chiuso il rapporto tale
esigenza non appare più sussistente. In quel momento si cristallizza
definitivamente – quanto al capitale – il credito di restituzione della banca
restando insensibile – quanto alla misura degli interessi – alle successive
variazioni dei tassi di rendimento dei BOT ex art. 5 L. n. 154/92. È vero che tali tassi continueranno verosimilmente a variare, e
magari a scendere, ma in tal caso il correntista debitore non può che subire
le conseguenze del suo inadempimento non essendovi più ragione di ancorare la
misura degli interessi ad un rapporto contrattuale di durata ormai non più
esistente. La decorrenza, infine,
è quella richiesta: la banca li ha domandati dal momento in cui ha formalmente
messo in mora il Ferruccio, il
10/9/97, come da lettera inviatagli e prodotta agli atti. Da tale data e fino all’effettivo soddisfo devono pertanto
esserle riconosciuti. Accertato in tale misura il debito dell’opponente deve essere
stabilito quale sia l’istituto di credito a favore del quale deve essere
pronunciata la condanna del Ferruccio, in seguito alla vicenda successoria
che ha interessato la controversia. Come già detto, avvenuta la fusione per incorporazione della
B.A.M. s.p.a. in Monte dei Paschi di Siena s.p.a., quest’ultima ha ceduto un
ramo della propria azienda alla nuova B.A.M. s.p.a. che contestualmente ha
preso il nome di B.A.M. s.p.a. La prima vicenda integra una successione a titolo universale ex
art. 110 c.p.c., la seconda una a titolo particolare ex art. 111 c.p.c. Ed infatti ex art. 110 c.p.c. nel caso in cui una parte muoia o
venga meno per altra causa il processo deve proseguire nei confronti del
successore a titolo universale; secondo un consolidato orientamento
giurisprudenziale, pur non condiviso da una parte della dottrina, la norma
disciplina il fenomeno della successione nel caso in cui la persona fisica o
giuridica venga meno ed è volta a ripristinare la necessaria bilateralità del
processo. Tale evenienza – e cioè il venir meno dell’originaria convenuta
– si è verificata nel caso di specie ed ha assunto rilevanza processuale
attraverso il meccanismo dell’interruzione ex art. 300 c.p.c.: la fusione per
incorporazione della B.A.M. s.p.a. nel Monte dei Paschi di Siena s.p.a. ha
infatti determinato la sua estinzione, id
est il venir meno del soggetto, ipotesi prevista dalla norma citata
(Cass. civ., I, n. 10595/01). Poiché quindi la società incorporante deve ritenersi successore
a titolo universale di quella incorporata, ex art. 110 c.p.c. legittimamente
nei confronti della prima è proseguito il processo. E tuttavia, riassunta la causa ex art. 303 c.p.c. nei confronti
del Monte dei Paschi di Siena s.p.a. quest’ultimo è rimasto contumace ex art.
303/4 c.p.c. mentre la (nuova) B.A.M. s.p.a. è volontariamente intervenuta
nel processo ex art. 111/3 c.p.c., quale successore a titolo particolare
perché cessionaria di un ramo d’azienda, facendo proprie le domande originariamente
svolte dalla (vecchia, per così dire) B.A.M. s.p.a. La riassunzione del processo comporta la dichiarazione di
contumacia della parte non comparsa, benché si fosse regolarmente costituita
nella precedente fase del giudizio. Da ciò non consegue però che le domande dalla stessa proposte
con l’atto di citazione o in via riconvenzionale debbano ritenersi rinunciate
o abbandonate, essendo relative ad un giudizio che prosegue nella nuova fase
che conserva tutti gli effetti processuali e sostanziali dell’originario
rapporto. D’altra parte l’art. 290 c.p.c. consente, in caso di contumacia
dell’attore, la prosecuzione del giudizio su richiesta del convenuto, con
possibilità per il giudice di dare le disposizioni previste dall’art. 187
c.p.c., e l’art. 293 c.p.c. conferisce alla parte contumace la facoltà di
costituirsi fino all’udienza di precisazione delle conclusioni senza alcuna
decadenza (così espressamente Cass. civ., III, n. 6867/96). Quanto a quelle svolte dalla (nuova) B.A.M. s.p.a. quale
interveniente volontaria ex art. 111/3 c.p.c., perché a sua volta successore
a titolo particolare del Monte dei Paschi di Siena s.p.a. quale cessionaria
di un ramo d’azienda di quest’ultima, deve rilevarsi come il suo intervento
la legittimi processualmente a far valere il proprio diritto nella
controversia. Ex art. 111 c.p.c. non esiste alcun obbligo di allegare in un
atto del processo il fatto che è avvenuta la successione a titolo particolare
e dunque un evento potenzialmente idoneo a trasferire la titolarità del
diritto controverso. Se dunque ciò non avviene non si verifica alcuna sostituzione
processuale ex art. 81 c.p.c., non imponendola – come già detto – l’art. 111
c.p.c. La parte originaria resta legittimata ordinaria senza che vi sia
alcuna sua sopravvenuta legittimazione straordinaria. La legittimazione processuale della parte deriva infatti non
tanto dalla titolarità del diritto sostanziale, quanto dal potere di compiere
atti di disposizione processuale di quel diritto. Le due circostanze normalmente coincidono nel senso che la
seconda è conseguenza della prima in tutti i casi di legittimazione ordinaria
- in cui cioè la parte fa valere in giudizio la tutela di un diritto proprio
- e si scindono nei casi di legittimazione straordinaria - in cui cioè la
parte fa eccezionalmente valere in giudizio la tutela di un diritto altrui. Ex art. 75 c.p.c. il far valere in giudizio un diritto proprio
costituisce la regola (in questo senso la legittimazione è ordinaria), mentre
il farne valere uno altrui l’eccezione (in questo senso è straordinaria). La legittimazione, inoltre, come presupposto processuale è
inevitabilmente valutata come tale in riferimento alle affermazioni compiute dalla parte circa il potere di disposizione
del diritto oggetto del giudizio e non anche in riferimento all’effettiva esistenza di tale potere:
un’eventuale mancata prova di tale titolarità comporta il rigetto della
domanda nel merito ma non incide sulla legittimazione della parte che si è
affermata titolare di quel diritto o comunque del potere di disporne e che –
per ciò solo – è processualmente legittimata a farlo valere in giudizio. Se dunque la parte che si è spogliata del diritto di cui era titolare,
o meglio di cui si affermava titolare, tace tale circostanza, il processo
prosegue sul diritto così come enunciato nell’atto di citazione ed il giudice
accoglie la domanda come formulata dall’attore, se la ritiene fondata. La legittimazione della parte resta ordinaria, non si verifica
alcuna sostituzione processuale, non v’è alcun mutamento della domanda né
dell’oggetto del giudizio e la pronuncia è conforme all’originaria editio actionis, proprio perché
nessuna diversa affermazione da quelle originariamente contenute nell’atto di
citazione è stata compiuta. Se invece la parte decide di far constare agli atti del processo
l’avvenuta successione a titolo particolare si ha un mutamento della domanda,
nel senso che la parte originaria afferma che la titolarità del diritto è ora
in capo ad un altro soggetto e dunque chiede che la pronuncia sia compiuta
nei suoi confronti. La legittimazione della parte originaria diviene quindi
straordinaria nel senso che fa ora valere in giudizio un diritto altrui, si
verifica un mutamento della domanda e dell’oggetto del giudizio e la
pronuncia è conforme non più all’originaria editio actionis, ma alle nuove affermazioni compiute dalla parte
con l’atto con cui ha dichiarato l’evento successorio. Se poi il successore è chiamato o interviene in causa diventa
l’avversario principale, tanto che il suo dante causa resta in una posizione
che la dottrina assimila sostanzialmente a quella dell’interveniente adesivo.
Non a caso in tali ipotesi, in cui cioè l’evento successorio è reso
manifesto, la sentenza ha efficacia diretta nei confronti del successore,
mentre in quella in cui ciò non avviene ha solo efficacia riflessa ex art.
111 c.p.c. che si pone come eccezione alla regola generale sull’estensione
soggettiva del giudicato ex art. 2909 c.c. secondo cui la sentenza non può
produrre effetti pregiudizievoli nei confronti di chi non è stato parte del
processo al termine del quale è stata resa. Se così è, nel caso di specie entrambi gli istituti bancari
hanno legittimazione processuale ordinaria, nel senso che ciascuno afferma in capo a sé la titolarità del
diritto di credito derivante dal saldo passivo del conto corrente bancario:
Monte dei Paschi di Siena s.p.a. quale successore universale della (vecchia)
B.A.M. s.p.a., non potendo ritenersi rinunciate le originarie domande, che
devono dunque considerarsi come riferite a tale istituto di credito pur nella
sua veste di contumace, e la (nuova) B.A.M. s.p.a. quale successore a titolo
particolare dello stesso Monte dei Paschi di Siena s.p.a. legittimata ad
intervenire volontariamente ex art. 111/3 c.p.c. La questione diviene dunque di merito e non può che essere
risolta sulla base delle risultanze probatorie relative all’attuale
titolarità del diritto. A tale proposito se è incontestata fra le parti la vicenda
successoria a titolo universale, deve altresì ritenersi provata quella a
titolo particolare. Con l’atto di intervento la (nuova) B.A.M. s.p.a. ha prodotto
copia dell’estratto dell’atto notarile con la quale è avvenuta la cessione del
ramo d’azienda fra le due banche in uno con tutti i rapporti di debito e
credito, anche quelli oggetto di accertamento giudiziale come il presente, di
cui già era titolare la (vecchia) B.A.M. s.p.a. Deve pertanto ritenersi attuale creditrice del Ferruccio la
(nuova) B.A.M. s.p.a. Né può ritenersi ciò un illegittimo allargamento dell’oggetto
del giudizio, come paventato dall’attore nella comparsa conclusionale, avendo
tale istituto di credito fatte proprie le medesime domande dell’originaria
convenuta (ricorrente in sede monitoria), senza alcuna modifica oggettiva
della res litigiosa, mutando solo
la titolarità di essa. In conseguenza di ciò devono essere rigettate tutte le domande –
sia quella principale che quelle riconvenzionali – svolte dal Monte dei Paschi
di Siena s.p.a., già (vecchia) B.A.M. s.p.a. Deve invece essere accolta quella principale della (nuova)
B.A.M. s.p.a. nei limiti già precisati. Dalla decisione in tal senso della controversia deriva inoltre
il rigetto delle domande riconvenzionali della (nuova) B.A.M. s.p.a. aventi
ad oggetto un tasso di interesse diverso da quello accertato come legittimo. Visto il complessivo esito del giudizio possono essere
interamente compensate le spese processuali fra l’attore ed il Monte dei
Paschi di Siena s.p.a.; per il medesimo motivo possono essere compensate per
metà quelle fra l’attore e la (nuova) B.A.M. s.p.a.; la restante metà segue
la soccombenza ed è liquidata come in dispositivo; sono infine poste a carico
dell’attore e della (nuova) B.A.M. s.p.a. - per metà ciascuno - quelle della
CTU, liquidate come da separato decreto, in atti. P.Q.M. Il Tribunale di Mantova, nella persona del giudice dott. Luigi
Bettini, definitivamente pronunciando sull’opposizione al decreto ingiuntivo
del Pretore di Mantova n. 678/97 proposta da Ferruccio Alfredo avverso la
Banca Agricola Mantovana s.p.a., ora Monte dei Paschi di Siena s.p.a., in
persona del legale rappresentante pro
tempore, con l’intervento della (nuova) Banca Agricola Mantovana s.p.a.,
in persona del legale rappresentante pro
tempore, ogni diversa istanza disattesa e respinta, così decide: - dichiara la nullità del decreto ingiuntivo opposto; - condanna Ferruccio Alfredo al pagamento a favore della (nuova)
B.A.M. S.p.a. della somma di €. 14.617,39, oltre agli interessi legali ex
art. 5 L. n. 154/92, sulla somma di €. 10.385,87 dal 10/9/97 al saldo; - rigetta tutte le altre domande, principali e riconvenzionali; - compensa per intero le spese processuali fra Ferruccio Alfredo
e il Monte dei Paschi di Siena s.p.a; compensa per metà quelle fra Ferruccio
Alfredo e la (nuova) B.A.M. s.p.a.; condanna Ferruccio Alfredo al pagamento a
favore della (nuova) B.A.M. s.p.a. della restante metà, liquidata in
complessivi €. 1.730,47, di cui €. 120,53 per spese, €. 521,06 per diritti ed
€. 910,00 per onorari, oltre IVA e CPA come per legge; pone definitivamente a
carico di Ferruccio Alfredo e della (nuova) B.A.M. s.p.a. - per metà ciascuno
- quelle della CTU, liquidate come da separato decreto, in atti. Mantova, 10/9/04 |