Tribunale di Mantova – Dr.ssa Cristina
Ardenghi – 16 settembre 2005. Omicidio colposo - colpa professionale – attività
medico-chirurgica – nesso eziologico – elevato grado di probabilità logica e
credibilità razionale – necessità Nel settore estremamente complesso dell’attività
medico-chirurgica, la verifica della sussistenza del nesso eziologico tra la
condotta e l’evento deve essere operata alla stregua di un giudizio
controfattuale, fondato su generalizzazioni scientificamente valide ed
accettate, tale per cui si possa
affermare che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa omessa, l’evento lesivo non si
sarebbe verificato (o si sarebbe verificato con minore intensità)
con un elevato grado di probabilità logica e credibilità razionale, ma ciò
tenendo conto delle specificità e particolarità del caso concreto, non
essendo consentito dedurre automaticamente la conferma dell’esistenza del
nesso causale dai soli coefficienti di probabilità statistica desunti da
leggi scientifiche. Invero, non basta provare che la condotta omissiva
contestata può essere stata condizione necessaria dell’evento letale, dovendo
raggiungersi la prova che essa è stata l’antecedente eziologico dell’evento. (artt. 40, 43, 113, 589 C.P). TRIBUNALE DI MANTOVA SEZIONE DISTACCATA DI CASTIGLIONE DELLE STIVIERE SENTENZA A SEGUITO DI
DIBATTIMENTO REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale di Mantova – Sezione Distaccata di Castiglione delle
Stiviere in composizione monocratica – nella persona del Giudice Dott.ssa
Cristina Amalia Ardenghi, alla pubblica udienza del 16.09.2005 ha pronunciato
la seguente sentenza nel procedimento penale nei confronti di: TIZIO, libero assente e CAIO, libero assente IMPUTATI del delitto di cui agli artt. 113 e 589 c.p. perchè in cooperazione
tra loro in qualità di medici in servizio il 04.12.2001 nel reparto di
rianimazione di XXXXXXXXX, cagionavano con colpa la morte di
****************, consistendo la colpa genericamente in negligenza, imperizia
e imprudenza, condotta consistita per i medici in servizio presso il reparto
di rianimazione dell’ospedale di XXXXXXXXXXX nel corso della degenza della
Sig.ra ************ , e segnatamente per il Dr. CAIO nel pomeriggio del
04.12.2001 e fino alle ore 20,00 e per il Dr. TIZIO (dalle ore 20,00 e fino
al decesso della ********** avvenuto il 05.12.2001 alle ore 00,09),
nell’avere posto in essere trattamenti non solo insufficienti, stante la
gravità della situazione, ma anche sostanzialmente errati, nonostante
l’elemento patologico più rilevante rappresentato dalla grave anemia e dalla
piastrinopenia di cui la paziente era portatrice, fosse già a loro
conoscenza; infatti a fronte di questa grave situazione, gli interventi dei
sanitari si sono limitati sostanzialmente e reidratazione e a
somministrazione endovena di un beta bloccante (atenolo, 2mg) per contrastare
una tachicardia erroneamente attribuita a sovradosaggio di sibutramina,
inibendo con tale trattamento ulteriormente e ineluttabilmente i meccanismi
fisiologici di compenso dello stato anemico che erano in atto nella paziente;
inoltre nell’avere omesso un approccio terapeutico corretto quale prevedere
innanzitutto un ripristino dei componenti ematici mediante infusione di
sangue fresco e/o emoderivati con il contemporaneo e assiduo controllo
dell’evoluzione delle condizioni cliniche; in tal modo si verificava uno
scompenso respiratorio e una gravissima bradicardia, e nonostante venisse
instaurata una terapia di supporto respiratorio e cardiocinetico,
l’intervento risultava inefficace e veniva constatato il decesso della paziente
************. In -------------- il 03.12.2001 e in XXXXXXX il 04.12.2001; decesso
avvenuto in XXXXXXX il 05.12.2001 alle ore 00,09. CONCLUSIONI DELLE PARTI: IL PUBBLICO MINISTERO chiede: Concesse le attenuanti generiche
condannarsi entrambi alla pena di anni 1 di reclusione; I DIFENSORI DEGLI IMPUTATI chiedono: Assoluzione perchè il fatto non
sussiste, in subordine ai sensi dell’art. 530 comma 2 c.p., in ulteriore
subordine concesse le generiche, minimo della pena, benefici di legge. MOTIVI DELLA DECISIONE 1 - svolgimento del processo e ricostruzione storica del fatto Con decreto del 24.9.2003 il Gup di Mantova disponeva il rinvio al
giudizio di questo Tribunale di Caio e Tizio, per rispondere del delitto di
cui agli artt. 113 e 589 c.p. perché, in cooperazione colposa tra loro, in
qualità di medici in servizio nel reparto rianimazione dell’ospedale di
XXXXXXXX cagionavano la morte della paziente Sig.ra *************** per
negligenza, imprudenza ed imperizia; segnatamente per aver posto in
essere trattamenti terapeutici
non solo insufficienti, stante la gravità della patologia di cui la
************ risultava affetta (in particolare una grave condizione di anemia
e piastrinopenia), ma anche sostanzialmente errati, omettendo in particolare
di operare trasfusioni di sangue
e/o emoderivati e, di contro, somministrando erroneamente un farmaco betabloccante per contrastare lo stato di
tachicardia, compromettendo in tal modo i meccanismi fisiologici di
compenso dell’organismo e
determinando l’insorgere di una grave bradicardia con conseguente
decesso della paziente per
arresto cardiocircolatorio. Il processo, sviluppatosi in più udienze, è stato istruito con prove
testimoniali ed esame dei consulenti tecnici di parte, nonché mediante
acquisizione di numerosi documenti afferenti a vario titolo la vicenda (in
particolare documentazione sanitaria relativa alla paziente precedente
il ricovero presso l’ospedale di
XXXXXXXX, cartella clinica e diario infermieristico redatti presso il reparto
di rianimazione dell’ospedale di XXXXXXXX, relazione autoptica, pubblicazioni scientifiche relative
al farmaco sibutramina assunto nei giorni precedenti la morte dalla
***********, schede di segnalazione di sospetta reazione avversa inerente lo stesso farmaco trasmesse al Ministero della Salute). Sulla base delle deposizioni testimoniali assunte e del materiale clinico acquisito è stato possibile
pervenire ad una precisa ricostruzione cronologica dei fatti oggetto del
presente procedimento. Nei primi giorni del mese di mese di novembre del 2001 **********,
dell’età di 39 anni, affetta da obesità, intraprendeva su prescrizione del proprio medico curante
dott. Rosa di Canneto s/O una terapia dietetica con concomitante assunzione
del farmaco dimagrante Ectiva
contenente il principio attivo della sibutramina (cfr. cartella clinica
acquisita presso il dott. Rosa); sulla base della deposizione resa dal
convivente risulta che la donna abbia assunto regolarmente il farmaco alla
dose consigliata di una compressa al giorno. A seguito del persistere di uno stato di malessere generale con
cefalea e dolori allo stomaco, insorto
nella giornata di sabato 1° dicembre 2001 (dopo circa 23 giorni di
trattamento con la sibutramina), la ********** il lunedì successivo 3 dicembre 2001 si recava dal proprio medico di base
il quale, dopo aver riscontrato dispnea, vertigini e pallore e formulato una
diagnosi di “tachicardia parossistica”, la inviava presso il P.S. di Asola
prescrivendo visita cardiologica e ECG urgente (si veda cartella clinica del
dott. Rosa e prescrizione urgente doc. 109 Pm). Il medico di guardia presso il P.S. di Asola riscontrava in
effetti una tachicardia sinusale
con P.A. 160/110 e dimetteva la paziente con il seguente referto: “Paziente in soprappeso
importante, in trattamento con sibutramina (ECTIVA) da circa 25 giorni.
All’ECG tachicardia sinusale con frequenza 110 min., alterazioni aspecifiche
della fase di recupero, PA 160/110, agitata. Utile sospensione della
sibutramina, dieta ipocalorica e calo ponderale con adeguata correzione
alimentare” (cfr. scheda del P.S. di Asola del 3.12.2001 ore 10.37 doc.
106 Pm). Con riferimento in particolare alla sibutramina, la sorella della
********* ha riferito in dibattimento di avere appreso proprio da ***********
della volontaria sospensione dell’assunzione del farmaco sin dalla giornata
di sabato, quando aveva cominciato a sentirsi poco bene. Tuttavia il mattino successivo (cioè il 4.12.2001) lo stato di
malessere della ********** peggiorava e la donna, che continuava a
presentare astenia, difficoltà
nella respirazione, tachicardia
e dolori di stomaco, veniva visitata al proprio domicilio dalla dott.
Pascalidu (sostituto del medico di base dott. Rosa), che consigliava un nuovo ricovero tramite ambulanza presso il P.S. di
Asola. Dal rapporto di intervento del Servizio 118 (doc. 116 Pm), avvenuto
verso le ore 13.00 presso il domicilio della ********** risulta una diagnosi
di partenza “vomito” ed una al
termine dell’intervento di “riferita
ematemesi in paziente obesa in trattamento dietetico”. Giunta al P.S. di Asola alle ore 13.20, ove il medico di guardia
indicava nella scheda di ingresso una diagnosi di “riferita ematemesi (epistassi?)” (cfr. scheda del P.S. ed
allegati referti delle analisi ivi eseguite doc. 110- 115 Pm), la **********
veniva sottoposta a visita, ECG e TAC
del cranio oltre ad esami ematici; la stessa veniva riconosciuta come:
”poco collaborante, non parla, risponde
agli stimoli verbali”. Nel corso della loro deposizione testimoniale i medici del P.S. di
Asola dottor Galli Giuseppe, in servizio fino alle ore 14.00, e dott.
Santini Tiziana con turno
successivo, hanno ricordato le condizioni gravi in cui si trovava la paziente
durante la sua permanenza presso il P.S. e le ragioni che avevano quindi
giustificato il suo successivo trasferimento presso il reparto di
rianimazione dell’ospedale di XXXXXXX. Il dottor Galli ha riferito che la donna, al suo arrivo in
ambulanza, si trovava in uno stato di obnubilamento sensorio perché, pur
rispondendo agli stimoli verbali, non parlava nel modo più assoluto e tendeva
ad assopirsi in continuazione; ha ricordato poi che il monitoraggio dei parametri vitali (pressione
arteriosa, frequenza cardiaca, saturazione di ossigeno) non evidenziava nulla
di anomalo, sicchè la situazione poteva definirsi regolare dal punto di vista
emodinamico e respiratorio, essendo peraltro assenti anche fenomeni di
tachicardia. La sintomatologia, quindi, consistente in sostanza nello stato di
confusione mentale, rimaneva dubbia in quanto, pur essendo indicativa di un
problema neurologico centrale in fase di esordio (quale, ad esempio, una
neoplasia, emorragia o ischemia celebrale) era stata smentita dalla TAC al
cranio eseguita con urgenza, che
aveva escluso patologie di tal genere. Solo gli esiti degli esami ematochimici, pervenuti quando il dottor
Galli era già stato sostituito dalla dott. Santini, evidenziavano un valore gravemente alterato di piastrine,
pari a 9000 (essendo il valore normale compreso tra 120 mila e 400 mila). Anche il valore dell’emoglobina risultava decisamente basso, pari a
7.1, a fronte di un valore normale compreso tra 11 e 17.6, comunque non tale
da destare pericolo per la vita. Con riguardo in particolare ai riferito episodio di vomito con
ematemesi, occorre precisare fin da ora (trattandosi di questione che poi
risulterà determinante ai fini dei successivi sviluppi della vicenda e quindi
della sussistenza di profili di responsabilità degli imputati) che il
rapporto del servizio 118 parla espressamente di un episodio “riferito” e quindi non accertato
direttamente dal personale sanitario intervenuto e che tutti i familiari
presenti ai fatti, ad eccezione della sorella Cesarina, nel riferire i
sintomi della congiunta non hanno ricordato episodi di vomito e/o perdite di
sangue; quest’ultima, peraltro, ha dichiarato in proposito che la mattina
del 4 dicembre 2001, poco prima dell’intervento dell’ambulanza, la sorella
non aveva vomitato sangue, una una sostanza bianca, sia pure con piccole
tracce di sangue (“Pm: Poteva essere
sangue, una sostanza scura? **********: No, era roba
bianca, una cosa bianca. Però c’erano dentro, appena appena, delle righettine
di sangue, appena appena”). Ugualmente il dottor Galli ha escluso la presenza di fenomeni di
emorragia durante la degenza della paziente presso il P.S. di Asola, spiegando di avere riportato
sulla scheda di intervento la diagnosi di “riferita
ematemesi (epistassi?)” solo perché in tal senso gli era stato riferito dal medico
dell’ambulanza, il quale a sua volta aveva semplicemente riportato quanto
indicato dalla **********, escludendo però di avere constatato tracce di
emorragia al momento del suo intervento domiciliare, fatta eccezione per
alcune “macchioline sul fazzoletto”. Considerato che una ematemesi è un sanguinamento imponente
dall’esofago e dal tubo digerente, piccole macchie di sangue deponevano
secondo il Galli, fino a diagnosi certa, per un episodio di semplice epistassi,
cioè sangue dal naso o dalla sede della bocca. Con riguardo, invece, all’assunzione della sibutramina il dottor
Galli ha dichiarato che i familiari non avevano fatto alcun cenno della
terapia assunta, sicchè la circostanza era rimasta del tutto ignorata e
quindi non sondata in quella sede. La dott. Santini, medico in servizio dalle ore 14.00, ha ricordato
che la ********** alternava
stati di sopore completo a stati
di grave agitazione e che la stessa non si presentava vigile, essendo
impossibile parlare con lei, nonostante tutti i parametri vitali (pressione,
frequenza respiratoria, attività cardiaca) fossero ancora nella norma. Tuttavia gli esiti degli esami ematochimici, in particolare lo stato
di anemia (dovuto al basso valore dell’emoglobina) e la grave piastrinopenia,
associata a un valore elevato dei fattori della coagulazione, la convincevano
della criticità della condizioni della paziente e della conseguente necessità
di un ricovero in una struttura adeguata di rianimazione. La stessa ha ricordato di non aver potuto formulare sul momento una
diagnosi precisa, pur
ipotizzando una
condizione di CID (coagulazione intravascolare disseminata), cioè un quadro
clinico caratterizzato da piastrinopenia e aumento dei fattori della
coagulazione, condizione riconducibile a diverse patologie. Ha escluso, comunque, che la ********** presentasse emorragie o
comunque perdite di sangue
durante la sua permanenza ad Asola, pur ritenendo plausibili con il
quadro clinico esistente e con l’ipotesi diagnostica formulata precedenti
fenomeni emorragici e di trombi. La Santini ha ricordato anche
di avere concordato per telefono direttamente con il dott. Caio,
medico responsabile del reparto di rianimazione dell’ospedale di XXXXXXXX in
quel momento, il trasferimento della **********, dopo avere esposto allo
stesso il caso clinico, gli esiti degli esami eseguiti, nonché le condizioni
obiettive piuttosto critiche in cui si trovava la paziente. Anche la Santini ha confermato poi di essere stata all’oscuro del
fatto che la ********** era in cura con il farmaco sibutramina, posto che
detta circostanza non era stata riferita da alcuno dei familiari al momento
del ricovero. La donna veniva quindi trasportata in ambulanza presso l’ospedale di
XXXXXXXXX dove giungeva alle ore 15.45; all’atto del suo ingresso presso il
reparto di rianimazione veniva riferito “stato
saporoso, anemia e piastrinopenia di natura da determinarsi”. Sempre dalla cartella clinica e dalla restante documentazione
sanitaria relativa al ricovero (doc. prodotti dal Pm) emerge che la paziente
alternava lo stato saporoso a
momenti di risveglio con agitazione psicomotoria, era emodinamicamante stabile e non
presentava segni evidenti di emorragie; nel corso del ricovero la stessa
veniva monitorata nei parametri vitali, che rimanevano costanti, e nuovamente
sottoposta ad esami radiologici (TAC all’encefalo che risultava negativa) ed
ematochimici per la verifica dello stato anemico e della piastrinopenia già
rilevata ad Asola, nonché ad esame delle urine per la ricerca di sostanze
stupefacenti, segno che il dottor Caio, in assenza di altri riscontri
obiettivi, cercava spiegazione dello stato di obnubilamento sensorio e di
agitazione psico-motoria nella
possibile assunzione di droghe (gli esiti degli esami si rivelavano però
assolutamente negativi). L’emocromo evidenziava un livello immutato di emoglobina (7.1) ed
una lieve risalita della piastrine, passate da 9000 a 17.000. Dal diario infermieristico emerge che la paziente presentava anche uno stato di tachicardia per
ridurre il quale, su indicazione del dott. Caio, veniva praticata per
endovena una dose di 4 cc di Tenormin (pari alla metà di una dose normale)
tra le ore 19.30 e le ore 20.00. Infine venivano segnalate urine ematiche. I parametri vitali rimanevano costanti fino alle ore 22.30, quando
la paziente, che presentava PA 130/100 e una FC 140 b/m, veniva sottoposta ad
intubazione nasotracheale e posta in ventilazione controllata. Del tutto improvvisamente alle ore 23.00 si manifestava una grave
bradicardia non responsiva
all’atropina, con ingravescente riduzione del battito cardiaco fino all’arresto cardiocircolatorio. La paziente veniva quindi
sottoposta a massaggio cardiaco esterno e ad una massiccia somministrazione di adrenalina (15
fiale per endovena) senza alcuna ripresa autonoma del battito cardiaco. La morte veniva constatata alle ore 00.09. Con riguardo al periodo di ricovero presso il reparto di
rianimazione dell’Ospedale di XXXXXXXXX, ove prestavano servizio i due medici
oggi imputati (il dottor Caio nel pomeriggio del 4 dicembre e fino alle ore 20.00, il dottor
Tizio dalle ore 20.00 fino al decesso della **********) sono state esaminate
in dibattimento come testimoni la due infermiere professionali che hanno seguito
la paziente. La prima, Valdo Rita, ha ricordato che la ********** era stata
sottoposta ad ECG e al
monitoraggio dei parametri vitali e che, su disposizione del dottor Caio, aveva personalmente
somministrato verso le ore 20.00 4 cc di un farmaco betabloccante (il Tenormin), essendo presente una
condizione di tachicardia. Rispondendo a precise domande della difesa ha poi dichiarato che i
valori della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca annotati sulla
cartella clinica erano esattamente quelli rilevati nelle diverse ore della
giornata ed ha quindi confermato che dopo la somministrazione del Tenormin il
quadro dei parametri vitali era rimasto immutato, almeno fino alle 21.00 (cioè dopo un’ora dalla
somministrazione), quando ella aveva finito il turno e lasciato le consegne
alla collega Rigamonti. Nel suo turno, poi, la paziente non aveva presentato episodi emorragici di qualsivoglia
natura. L’infermiera Rigamonti, in servizio dalle 21.00 fino al decesso
della **********, ha ricordato che durante il suo turno nessun altro farmaco
era stato somministrato (come peraltro risulta dalla cartella clinica), fatta
eccezione per i farmaci sedativi necessari all’intubazione, oltre a un
normale diuretico. La stessa ha poi ricordato l’insorgere della grave brachicardia
verso le ore 23.00 con conseguente arresto cardiocircolatorio. Prima di procedere all’esame delle conclusioni tratte dai consulenti
di parte (per il Pm prof. Franco Tagliaro e dottor Aldo Polettini, per la
difesa prof. Alberto Pasetto e dottor Edgardo Mauro) e dal dott. Gaetti
Luigi, medico anatomo-patologo che ha eseguito l’autopsia sul cadavere, il
Tribunale ritiene opportuno precisare e riassumere alcune circostanze
fattuali incontroverse, che risulteranno utili ai fini del successivo
approccio alle diverse interpretazioni cliniche fornite dai consulenti. 1) Il primo dato dal quale occorre prendere le mosse è costituito dalle condizioni
patologiche riscontrate con certezza nella ********** poche ore prima del suo
decesso, e cioè unicamente lo stato anemico e la piastrinopenia, qualificati
dai sanitari del P.S. di Asola che per primi hanno esaminato la paziente “di natura da determinarsi”. Allo stesso modo è stato riconosciuto da tutti i consulenti
esaminati che i sintomi presenti
al momento del ricovero presso il reparto di rianimazione (stato
saporoso alternato ad episodi di agitazione psicomotoria, tachicardia,
polipnea) indubbiamente costituivano un quadro clinico piuttosto aspecifico,
potenzialmente riconducibile a diverse patologie e non solo al grave stato
anemico (sul punto anche il consulente del Pm prof. Tagliaro, riferendosi a
detta sintomatologia, ha parlato
di una “situazione aspecifica”). 2) Lo stato anemico, rivelato dal basso livello di emoglobina pari a
7.1, seppure preoccupante, non poteva definirsi di immediato allarme per la
vita, posto che tutti i consulenti hanno riconosciuto che valori di
emoglobina fino a 7 g/d (pari alla metà del valore normale che si colloca a 14 g/d) seppure
anormali, possono non ingenerare difficoltà per l’organismo, dovendo detto valore essere
inquadrato nella situazione clinica generale e complessiva del soggetto. 3) La gravissima mancanza di piastrine (trattasi dei fattori di
coagulazione del sangue), invece, si poneva indubbiamente come fattore di
pericolo immediato per la vita della paziente, posto che un numero così basso
di piastrine non garantisce l’emostasi, sicchè un soggetto si trova esposto ad ogni piccolo trauma al
pericolo di micro e/o grandi emorragie. Tuttavia, è opportuno chiarire sin da ora che, seppure il dato era
certamente allarmante e nessun trattamento terapeutico di contrasto è stato
attivato durante il ricovero (ad esempio mediante la trasfusione di nuove
piastrine o la somministrazione di farmaci per stimolarne la crescita),
tuttavia la morte della paziente non è stata ricondotta da nessuno dei consulenti alla piastrinopenia, posto che il
decesso non è avvenuto per processi emorragici
incontrollabili a causa della mancanza di piastrine; in altri termini la piastrinopenia
non ha avuto alcun efficacia eziologia sul decesso della paziente. 4) Nessuno dei consulenti è stato in grado di individuare la causa
dello stato anemico e della piastrinopenia riscontrata nella **********, né
chiarire se si trattasse di una forma di anemia cronica od acuta, posto che
sul punto sono state avanzate dai consulenti del Pm e della difesa unicamente
ipotesi (cfr. pagg. 25, 39, 59 verbale ud. 8.3.2005). 5) Indipendentemente dagli effetti che la sibutramina possa avere avuto sul quadro clinico in esame
(questione che verrà separatamente trattata), è certo che i medici oggi
imputati non erano stati
informati dell’assunzione di detto farmaco da parte della ********** e
conseguentemente le loro scelte
terapeutiche non sono state in alcun modo determinate (con particolare
riferimento alla somministrazione del betabloccante) dall’erroneo
convincimento che la tachicardia fosse un effetto secondario della sibutramina. 6) Non vi è prova che vi siano state emorragie nelle ore precedenti
il ricovero, né vi sono stati
processi emorragici durante il ricovero stesso, seppure sul punto i
consulenti del Pm abbiano insistito in termini probabilistici per la presenza
di microemorraggie, richiamando i riferiti episodi di ematemesi riportati dal medico del 118 e dal medico del PS di Asola. La circostanza è già stata in precedenza chiarita e deve essere in
questa sede ribadita, posto che l’assenza di emorragie è stata poi
riscontrata in sede autoptica, dove non sono emerse fonti di sanguinamento
rilevanti a livello esofageo e/o
gastrico (lo stesso consulente del Pm ha ammesso la circostanza, pur
riferendo che lesioni di piccoli vasi potrebbero anche sfuggire all’esame
autoptico). Quanto alla presenza di urine ematiche, segnalate nella scheda infermieristica,
in assenza di altri dati obiettivi, appare estremamente verosimile ritenere (come rilevato dai
consulenti della difesa) che trattasi di piccole tracce di sangue (ematurie)
conseguenti all’inserimento del catetere. Sempre i consulenti del Pm hanno insistito nell’indicare come fonte
probabile di sanguinamento, cui ricondurre almeno in parte il grave stato
anemico, e quindi come processi emorragici in atto, la zona dei tessuti
perirettali che nel corso della seconda autopsia eseguita il 21.3.2002, dopo
la riesumazione del cadavere, avevano rivelato infiltrazioni tipiche dei
processi emorroidali. Ora, anche a voler prescindere dal fatto che nella storia clinica
della paziente non sono state riferite problematiche relative ad emorroidi,
tuttavia è evidente che se si fosse trattato di un processo emorragico grave
dalle vie rettali, certo sarebbe stato rilevato sia nel corso dei ricoveri
presso il PS di Asola che presso il reparto di rianimazione e le perdite di
sangue dal retto sarebbero state rinvenute sia nell’immediato che nel corso
della prima autopsia, eseguita il giorno successivo al decesso. 7) I fattori della coagulazione, altro dato clinico importante per
la verifica della sussistenza di processi emorragici in corso, risultavano
nella norma (in presenza di processi emorragici acuti, invece, anche detti
fattori subiscono una notevole riduzione). Solo il valore del D-dimero (un sottoprodotto della coagulazione)
costituiva un dato anomalo nel quadro clinico, posto che a fronte della
regolarità degli altri parametri della coagulazione si presentava molto alto
(è risultato pari a 1209 a fronte di un valore normale che non dovrebbe
superare 200); tuttavia anche rispetto a questo dato gli stessi consulenti
del Pm hanno ammesso che un
valore elevato del D-dimero può avere spiegazioni diverse da quella di
un’attivazione dei processi della coagulazione e quindi di un’emorragia in
atto, essendo un dato in sé e per sé aspecifico (cfr. pagg. 96-97 verbale ud. 8.3.2005). 8) E’ certo che fino alle ore 22.30- 23.00, all’insorgere della
bradicardia, i parametri vitali della paziente sono stati regolari; la donna
respirava autonomamente, i valori pressori e quelli di saturazione periferica
dell’ossigeno si presentavano nella norma, in altri termini la paziente si trovava in una situazione
di compenso cardio-circolatorio ed emodinamico. Gli esami eseguiti (ECG, TAC cranio, RX del torace) non
evidenziavano anomalie, la temperatura corporea era nella norma, così come la
diuresi. Veniva segnalata solo una tachicardia e una polipnea, cioè un
aumento della frequenza del battito cardiaco e della respirazione. 9) Gli accertamenti anatomopatologici eseguiti in occasione
dell’autopsia effettuata il
giorno successivo la morte non
hanno evidenziato la presenza di patologie cui ricondurre il decesso, in
particolare non è stato rilevato un infarto miocardico, un infarto cerebrale,
emorragie interne, processi infettivi o patologie tumorali. Il medico operante dott. Gaetti ha concluso nella relazione
autoptica, sulla base degli elementi rilevati in corso di autopsia e
dell’analisi dei reperti istologici, per l’impossibilità di determinare con
certezza la causa della morte della **********. 2 – interpretazione dei dati rilevati nel corso dell’esame autoptico
da parte del medico anatomopatologo dott. Luigi Gaetti e sue dichiarazioni
rese all’udienza del 17.9.2004. Il dott. Luigi Gaetti, esaminato come testimone all’udienza del
17.9.2004 in qualità di medico che ha eseguito il primo esame autoptico sul
cadavere della **********, dopo aver escluso la presenza di cause evidenti di
morte, ha formulato alcune considerazioni medico-legali sulla storia clinica
della paziente, tenendo conto dell’anamnesi recente ed in particolare del
fatto che la donna nei giorni precedenti il ricovero aveva assunto per circa
20-25 giorni un farmaco antiobesità (Ectiva)
contenente come principio attivo la sibutramina, che agisce sul sistema
nervoso centrale inibendo la ricaptazione di alcuni neurotrasmettitori, in
particolare la serotonina (aumentando la sensazione si sazietà), l’adrenalina
(aumentando il metabolismo) e in maniera inferiore la dopamina. Secondo il dottor Gaetti proprio l’assunzione della sibutramina, in
assenza di altre cause evidenti di morte, avrebbe avuto un ruolo causale determinante nel decesso della
**********, posto che la sintomatologia riportata nella cartella clinica
evidenziava a suo parere l’insorgenza di una sindrome serotoninergica,
cioè uno stato di complicanze
caratterizzato da sopore alternato ad agitazione, debolezza, sudorazione,
tachicardia, con progressiva perdita di coscienza cerebrale, condizione che
sulla base della letteratura scientifica risulta connessa all’ assunzione
della sibutramina e di altri farmaci che agiscono sul sistema nervoso centrale.
Il teste ha riferito che la “sindrome
da serotonina” può manifestarsi soprattutto nell’ipotesi di uso
concomitante con altri farmaci influenti sui livelli della serotonina, e che
la letteratura scientifica ha catalogato almeno 168 casi di esiti fatali. Secondo il medico legale anche lo stato del cadavere (definito come “un cadavere che presentava anomalie in
senso tanatologico” – pag. 70 verbale ud. 117.9.2004”) deponeva
inequivocabilmente nel senso di un decesso attribuibile a sindrome
serotoninergica, dal momento che nonostante l’autopsia fosse stata eseguita a
30 ore dalla morte e la salma fosse stata conservata in ambiente freddo
(considerata anche la stagione invernale) la sensazione tattile, l’odore e lo
stato di conservazione
indicavano una putrefazione
maggiore di quella usuale, verosimilmente dovuta proprio all’azione
termogenetica del farmaco. In effetti i dati
ottenuti a seguito dei prelievi istologici confermavano l’attività termogenica della sibutramina per
il rilevato ed anomalo aumento del consumo energetico delle cellule, perché a
fronte di cellule come quelle
midollari (estranee ai meccanismi energetici), perfettamente conservate, quelle muscolari, in particolare
quelle cardiache, che invece
producono calore e determinano il consumo energetico, erano
caratterizzate da una marcata
lisi, in altri termini da uno stato di disgregazione in senso putrefattivo
non adeguata rispetto al tempo trascorso dal decesso (il medico legale ha
parlato di cellule che si erano “autoconsumate”
per produrre energia). Anche la piastrinopenia, infine, poteva essere posta in diretta
relazione con l’assunzione della sibutramina, considerato che la letteratura
scientifica cataloga tra gli eventi avversi connessi alla sibutramina anche
disordini della coagulazione e quindi della funzione piastrinica come
conseguenza della captazione della serotonina. 3 - conclusioni tratte dai consulenti tecnici del pubblico
ministero e dichiarazioni dagli
stessi rese all’ udienza dell’8 marzo 2005. Completamente diverse sono state le conclusioni tratte dai
consulenti del Pm, sulla base delle quali è stata fondata l’ipotesi
accusatoria nei confronti degli imputati, ai quali viene contestata sia una
condotta colposa omissiva, cioè il non aver praticato le terapie necessarie a
contrastare lo stato anemico e la piastrinopenia attraverso trasfusioni di sangue e /o emoderivati,
dall’altro una precisa condotta commissiva (quest’ultima in verità al solo
imputato Caio, come precisato in sede di conclusioni dal Pm), costituita dall’
errata somministrazione di un
farmaco betabloccante per
contrastare la tachicardia, che avrebbe poi determinato la grave bradicardia
con il conseguente arresto cardiocircolatorio e quindi la morte della
paziente. Occorre tuttavia premettere che gli stessi consulenti, sia nella
propria relazione scritta (pagg. 23-24) che in sede di esame dibattimentale,
a fronte degli esiti negativi dell’autopsia, che non ha evidenziato patologie responsabili del decesso o
comunque elementi immediatamente e indiscutibilmente identificabili come
causa di morte, hanno affermato di avere elaborato le proprie conclusioni “in via interpretativa”, cercando di
avvalorare gli elementi patologici
oggettivi clinicamente
rilevanti, rappresentati nel caso di specie dall’anemia e dalla
piastrinopenia. I consulenti del Pm hanno fondato le proprie considerazioni e
conclusioni sulla base dei verbali di sommarie informazioni rese dai
familiari della vittima, della documentazione clinica e dei referti poi acquisiti
al fascicolo del dibattimento, nonché degli esiti della seconda autopsia
eseguita sul cadavere riesumato in data 21.3.2002 e delle indagini
chimico-tossicologiche effettuate sia su campioni di liquidi e tessuti
biologici all’uopo prelevati sia sulle capsule residue della confezione di Ectiva consegnata dal convivente della
********** dopo il suo decesso e sottoposta a sequestro (questo per escludere
la presenza nelle capsule già
assunte di veleni e/o di una quantità di principio attivo superiore ai valori
dichiarati). Dalla relazione scritta
acquisita al fascicolo del dibattimento e dai chiarimenti forniti in
udienza emerge in estrema sintesi quanto segue: ·
·
la causa della morte della ********** non può ricondursi ad elementi
di natura tossicologica, dal momento che le indagini eseguite in tal senso
hanno escluso la presenza nei liquidi e nei tessuti biologici di veleni o
altre sostanze di possibile rilievo tossicologico; la riscontrata presenza di
morfina, peraltro, è stata ricondotta
alla somministrazione terapeutica avvenuta nel corso del ricovero in ospedale, come risulta dalla
cartella clinica (in effetti era già stata esclusa l’assunzione di
droghe durante la degenza
attraverso l’esame delle urine); ·
·
la sibutramina è stata rinvenuta nell’unico reperto disponibile per
tale ricerca – cioè il rene – in concentrazioni non elevate, comunque tali da
far escludere l’ipotesi di un sovradosaggio; sul punto i consulenti hanno
tuttavia ammesso che per il tempo trascorso dall’ultima assunzione del
farmaco e dal decesso (in particolare per la mancanza di liquidi biologici
costituiti da sangue e urine), la ricerca della sibutramina e dei relativi
metaboliti è risultata alquanto complessa e con esiti non qualificabili in
termini di assoluta certezza; ·
·
nelle capsule contenute
nella confezione di Ectiva non sono
state rinvenute sostanze farmacologicamente attive ad eccezione della
sibutramina, cioè del principio attivo dichiarato e detto principio è
risultato presente in dosaggio
corretto; ·
·
i sintomi evidenziati dalla ********** sin dal loro esordio (pallore, astemia, dispnea,
tachicardia) sono del tutto coerenti e riconducibili allo stato anemico (cui
deve ritenersi collegata la grave piastrinopenia), trattandosi dei meccanismi
di compenso che l’organismo
attiva quando la concentrazione di emoglobina nel sangue (che rappresenta il
veicolo di trasporto dell’ossigeno ai tessuti) si abbassa oltre i valori di
soglia; in altri termini in presenza di uno stato anemico (cioè di ridotti
livelli di emoglobina) l’organismo,
al fine di garantire un apporto sufficiente di ossigeno alla periferia, pompa più rapidamente attivando il meccanismo della tachicardia; ·
·
in questa condizione di equilibrio precario (non deve trascurarsi
poi che il cuore della donna
presentava un sovraccarico di base a causa dell’obesità) i sanitari del reparto di
rianimazione non hanno correttamente valutato la condizione della paziente,
in particolare la circostanza che il valore di emoglobina, seppure non di
allarme immediato, era associato a segni clinici di scompenso emodinamico
(tachicardia), respiratorio (dispnea) e neurologico (sopore); ciò imponeva
l’urgenza di un trattamento di contrasto dell’anemia attraverso infusione di
sangue fresco e/o emoderivati, che consentisse il ripristino dei componenti
ematici; ·
·
in questo quadro clinico la somministrazione di un farmaco
betabloccante, anche se a dosaggio ridotto, la cui azione farmacologica
consiste nel ridurre la frequenza e la forza contrattile del cuore, ha
precipitato “con ogni verosimiglianza”
(pag. 24 relazione consulenti) il precario equilibrio ancora in atto, esitando nella gravissima bradicardia
conclusasi con il decesso della paziente; questo trattamento farmacologico
era controindicato nel caso in questione in quanto in grado di inibire i
meccanismi fisiologici di compenso dello stato anemico in atto nella paziente (in generale
la compensazione di una tachicardia da anemia non va trattata con un
betabloccante perché questo farmaco riduce le capacità di compensazione
fisiologica dell’organismo, inducendo una bradicardia); ·
·
i trattamenti sanitari posti in essere dagli imputati, quindi, sono
stati - da un lato - assolutamente carenti ed insufficienti rispetto alla gravità della situazione,
dall’altro sostanzialmente errati, sì da integrare condotte colpose direttamente connesse alla morte
della **********. Nel corso dell’esame
i consulenti del Pm hanno poi
precisato che lo stato anemico era certamente da
ricondursi ad una emorragia in atto, facendo rilevare che sul cadavere
esumato sono stati evidenziati
spandimenti compatibili con una
emorragia nei tessuti
perirettali (da emorroidi), che nel corso della degenza erano state segnalate
urine ematiche e infine che esisteva un rilievo anamnestico di riferita
ematemesi. Il dato peraltro risultava compatibile con lo stato piastrinopenico,
ricondotto dai consulenti al consumo di piastrine per contrastare uno stato emorragico in atto. Quanto a possibili effetti della sibutramina sul decorso clinico
della paziente, i consulenti hanno riferito, da un lato, che non esiste
alcuna evidenza scientifica per
affermare che la sibutramina induca uno stato di anemia e di piastrinopenia;
dall’altro hanno riconosciuto
che la sintomatologia evidenziata dalla paziente poteva però essere
fuorviante almeno in un primo momento, proprio perché durante il trattamento con sibutramina
possono manifestarsi effetti collaterali come astenia, dispnea, tachicardia. In ogni caso i consulenti hanno escluso, in contrasto con l’opinione
espressa dal dott. Gaetti, che
la causa della morte della paziente possa ricondursi all’ipotesi di una crisi
serotoninergica (da sovradosaggio o ipersensibilità), tenuto conto che in
sede di seconda autopsia non sono emerse indicazioni in tal senso e che la
paziente non presentava tutti i sintomi tipici di detta sindrome (in
particolare non era stata segnalata alcuna insufficienza renale, né
ipertermia). 4 – conclusioni tratte dai consulenti tecnici degli imputati e dichiarazioni dagli stessi rese all’
udienza dell’8 marzo 2005. I consulenti tecnici degli imputati hanno rilevato in primo luogo la
mancata individuazione in termini di assoluta certezza delle cause della
morte della **********. Hanno poi sottolineato che il decesso della paziente è avvenuto a distanza di poche ore dal
ricovero presso il reparto di rianimazione, quando già la donna vi aveva
fatto ingresso in condizioni critiche, in assenza di alcuna precisa diagnosi
e con una sintomatologia aspecifica, il cui aspetto più evidente ed inspiegabile non era costituito dalla
tachicardia (posto che la donna si trovava comunque in una situazione di
compenso cardiocircolatorio), ma piuttosto dallo stato saporoso, che induceva a ritenere verosimile un
problema di tipo neurologico. Gli stessi hanno poi rilevato che l’approccio terapeutico della
rianimazione, in assenza di diagnosi precise, è quello di preservare i sistemi vitali e solo in un secondo momento di far
fronte alle cause che hanno determinato lo stato patologico. Fatte queste premesse, i consulenti hanno rilevato quanto segue: ·
·
l’ipotesi diagnostica di una grave emorragia acuta da cui sarebbero
scaturiti lo stato anemico e la piastrinopenia, affermata dai consulenti del
Pm, non risulta suffragata da
alcun elemento di fatto ed è stata smentita in sede autoptica (a parte il
dato trascurabile ed assolutamente marginale delle emorroidi); d’altro canto
in presenza di un’emorragia vi sarebbe stato un consumo combinato di
piastrine e dei fattori della coagulazione, questi ultimi invece rimasti nei
livelli di normalità; ·
·
di contro è certamente più verosimile ritenere che lo stato anemico
sia stato di natura cronica; ciò in effetti comporta il subentro di
meccanismi di compenso cardiocircolatorio che hanno un carattere di
stabilità, come quelli evidenziati dalla paziente che, seppur anemica,
presentava una saturazione di ossigeno pressoché normale (in altri termini vi
era una quantità di ossigeno sufficiente che veniva trasportata ai
tessuti attraverso il sangue,
pur con un valore molto basso di emoblogina) ed una diuresi conservata
(infatti uno dei primi segnali di scompenso cardiocircolatorio è
rappresentato dal decremento della diuresi, perchè la minore portata cardiaca
non alimenta a sufficienza i reni); ·
·
il dato relativo all’emoglobina e alle piastrine, certamente molto
basse (sia pure queste ultime con tendenza al rialzo), non poteva quindi
comportare nell’ottica della medicina della rianimazione la necessità di
procedere con urgenza a trasfusioni di sangue e altri emoderivati, in assenza
di perdite ematiche acute in atto, dal momento che appariva prioritario conservare i parametri vitali ed
indagare sulle cause della condizione neurologica; ·
·
in particolare la trasfusione di sangue fresco, in assenza di una
diagnosi precisa, presentava forti controindicazioni perché immettere sangue
nuovo può dar luogo ad un sovraccarico dell’attività cardiaca con effettivi
negativi; ·
·
ugualmente, in caso di grave piastrinopenia, esiste la reale necessità di procedere a trasfusione
di piastrine solo in presenza di
un quadro clinico emorragico, mentre in mancanza di perdite ematiche è
certamente consigliabile verificare in
primis l’origine e la causa della deficienza piastrinica; ·
·
la somministrazione del farmaco betabloccante in dose ridotta
rappresentava una risposta terapeutica corretta per cercare di stabilizzare il sistema cardiocircolatorio,
riducendo la frequenza cardiaca; in ogni caso detto farmaco non può aver avuto alcun effetto sull’attività
cardiaca, posto che dopo la sua somministrazione per endovena la frequenza
cardiaca e la pressione sanguigna sono rimaste invariate nelle tre ore
successive; essendo un farmaco con risposta pressoché immediata, deve
escludersi che abbia originato
la bradicardia e il conseguente arresto cardiocircolatorio a distanza di
circa tre ore dalla sua somministrazione, quando ormai la sua presenza nel
sangue era praticamente nulla. I consulenti hanno quindi escluso, da un lato, che la mancata infusione di sangue
fresco e piastrine possa avere avuto
un qualsiasi effetto
causale dimostrabile rispetto al decesso della **********, dall’altro che la
somministrazione del farmaco betabloccante in dose ridotta sia stata
all’origine della grave bradicardia e del conseguente arresto
cardiocircolatorio. Sul presupposto che lo stato anemico della donna perdurasse da tempo
in una condizione di equilibrio,
hanno ipotizzato che lo scompenso creatosi nell’arco di brevissimo
tempo (rispetto al quale sono ipotizzabili molteplici fattori scatenanti, tra
cui anche l’assunzione della sibutramina) si sia innestato su un problema
primitivo di funzionalità
cardiaca, aggravato dalla condizione di obesità della donna. Nel corso della prima autopsia eseguita dal dott. Gaetti, infatti,
era stata rilevata una situazione di miocardiopatia, in particolare delle
modificazioni sinciziali delle fibre cardiache, di significato verosimilmente
diverso da quello semplicemente postmortale. A parere di costoro, anche la somministrazione della sibutramina
potrebbe avere avuto un diretto ruolo causale nel decesso della **********,
influenzando la mancata risposta del cuore alla somministrazione di adrenalina avvenuta in dosi
massicce dopo l’insorgere della
bradicardia, nel tentativo rianimare la paziente. I consulenti hanno rilevato infatti che l’assenza di qualsiasi segnale di ripresa
dell’attività cardiaca è dimostrativa di un danno recettoriale di base, che
costituisce un effetto tipico delle anfetamine, cioè di una categoria di farmaci
affini alla sibutramina. Gli stessi hanno quindi
ipotizzato che il problema cardiaco sia stato aggravato in fase rianimatoria da una condizione
di down regolation dei recettori,
che ha di fatto annullato l’effetto dell’adrenalina. Sul punto hanno poi rilevato (e la circostanza è rimasta ampiamente
provata in sede dibattimentale) che gli imputati sconoscevano la circostanza
relativa all’assunzione da parte
della paziente della sibutramina
nei 20-25 giorni precedenti il malessere. Alla luce di quanto sopra esposto il Tribunale ritiene che gli
elementi acquisiti non provino oltre ogni ragionevole dubbio la sussistenza
di un nesso causale tra le condotte omissive e commissive contestate agli
odierni imputati e il decesso
della ********** (accertamento che necessariamente è prioritario rispetto a
qualsiasi valutazione attinente ai
profili di colpa). E’ indubitabile che gli
esiti autoptici non abbiano dato risposte certe in ordine alla causa di morte
della paziente, deceduta per arresto cardiocircolatorio conseguente ad una
grave bradicardia a distanza di poche ore dal suo ricovero presso il reparto
di rianimazione dell’ospedale di XXXXXXX. In un quadro di incertezza sulle precise cause di morte viene
contestato in primis ad entrambi
gli imputati di aver omesso un approccio terapeutico adeguato attraverso il
ripristino dei componenti ematici mediante infusione di sangue fresco e
piastrine così da contrastare lo stato anemico, in secondo luogo al solo
imputato Caio di avere somministrato un farmaco betabloccante per ridurre la
tachicardia, che avrebbe invece inibito i meccanismi fisiologici di compenso
attivati dall’organismo, provocando una grave bradicardia ed il successivo
arresto cardiocircolatorio. Ora, l’esame dell’accertamento del nesso causale tra le condotte contestate e l’evento letale muove dalla
verifica che dette condotte
(omissive e commissive) siano state, con un elevato grado di probabilità
logica e sulla base di dati scientificamente acquisiti, all’origine del decesso della **********, in altri termini che
quest’ultima non sarebbe morta se fossero state adottate le misure
terapeutiche omesse e, di contro, non fosse stato somministrato il farmaco
betabloccante. Il Tribunale, in adesione ad un indirizzo giurisprudenziale ormai
consolidato (SS.UU. n. 30328/2002),ritiene che la verifica della sussistenza
del nesso eziologico debba essere operata, a maggior ragione nel settore
estremamente complesso dell’attività medico-chirurgica, alla stregua di un
giudizio controfattuale fondato su generalizzazioni scientificamente valide
ed accettate, tale per cui si
possa affermare che,
ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa omessa, l’evento lesivo non si
sarebbe verificato (o si sarebbe verificato con minore intensità) con un
elevato grado di probabilità logica e credibilità razionale, ma ciò tenendo
conto delle specificità e particolarità del caso concreto, non essendo
consentito dedurre automaticamente la conferma dell’esistenza del nesso causale dai soli
coefficienti di probabilità statistica desunti da leggi scientifiche. Passando quindi all’esame in concreto della condotta omissiva contestata, il Tribunale
rileva come non sia stato provato con un accettabile margine di certezza che
eventuali trasfusioni di emoderivati, contrastando lo stato anemico e
piastrinopenico, avrebbero potuto impedire (come effetto ulteriore) la morte
della paziente, evento che i
diversi consulenti esaminati ed il medico legale che ha eseguito la prima
autopsia hanno ricondotto a catene ezio-patogenitiche diverse, esprimendo
considerazioni scientifiche
tutte ugualmente valide e fondate su dati di esperienza clinica acquisiti. E’ un dato di fatto accertato, però, in contrasto con l’opinione
espressa dai consulenti del Pm, che non vi era alcun processo emorragico grave in atto, cioè nulla che potesse
far ritenere che lo stato anemico e piastrinopenico riscontrato fosse acuto o
di recente insorgenza, richiedendo pertanto un’ immediata terapia trasfusionale
(quanto alla piastrinopenia, poi, è stato riconosciuto che detta condizione patologica non
ha avuto alcun effetto rispetto alla morte della paziente). Ugualmente è emerso che il livello di emoglobina, seppure basso, non
era di immediato allarme, considerato che il trasporto di ossigeno ai tessuti
era pressoché integro. E’ lo stesso consulente del Pm prof. Tagliaro (cfr. pag. 27-28
verbale ud. 8.3.2005) a riconoscere che un’immediata terapia trasfusionale,
praticata in assenza di una completa diagnosi del quadro patologico (si
ricordi che la ********** presentava sintomi aspecifici, di marcato carattere neurologico per il
sopore, l’incapacità di articolare parole e la successiva perdita di coscienza) poteva presentare
controindicazioni specifiche in relazione alla paziente perchè una
emotrasfusione “sovraccarica il lavoro
del cuore”. Occorre poi ricordare che la paziente, soggetto gravemente obeso
e quindi con un cuore già in
naturale sovraccarico di lavoro, da circa 20-25 giorni assumeva un farmaco
agente sul sistema nervoso centrale che, in base agli studi scientifici
accreditati, può influire sulla funzionalità e frequenza cardiaca. In tale specifico contesto, ove i fattori morbosi interagenti sono
stati molteplici, si può soltanto presumere in via ipotetica che un
intervento trasfusionale avrebbe contrastato lo stato anemico e - di riflesso - influito positivamente
sulla tachicardia, ma certo non può affermarsi in termini di elevata
probabilità e sulla base di dati scientificamente validi che una tale terapia,
se correttamente effettuata ed in assenza di reazioni avverse, avrebbe
impedito l’insorgenza del problema cardiaco che ha portato alla morte. Invero, non basta provare che la condotta omissiva contestata può essere stata condizione
necessaria dell’evento letale, dovendo raggiungersi la prova che essa è stata l’antecedente
eziologico necessario di quell’evento. La storia clinica della **********, sulla base delle emergenze
processuali disponibili, non ha consentito di individuare la genesi
eziopatologia del processo morboso che ha condotto alla morte; ugualmente è
rimasta dubbia la reale incidenza che la condotta omissiva contestata agli imputati avrebbe
avuto sul decorso causale della malattia, posto che il compendio probatorio
ha evidenziato una serie di fattori alternativi che potrebbero verosimilmente
avere interagito nella produzione dell’evento lesivo ( lo stato di grave
obesità della paziente e le condizioni di originario sovraccarico del cuore,
l’esistenza di una verosimile miocardiopatia, l’assunzione della sibutramina
e le possibili reazioni avverse,
l’associazione di farmaci antinfiammatori, l’esistenza di un danno
recettoriale). Quanto alla somministrazione del farmaco betabloccante, le evidenze
probatorie hanno consentito di appurare che la dose, di quantità ridotta, è
stata somministrata per endovena
tra le ore 19.30 e le ore 20.00, mentre lo stato di bradicardia è
sopraggiunto alle ore 23.00, dopo circa tre ore dalla somministrazione. Ora, i consulenti della difesa, sulla base di precise ed argomentate
considerazioni scientifiche ampiamente condivisibili, hanno chiarito e
distinto i concetti di farmacocinetica (o emivita), che indica per
quanto tempo il farmaco rimane presente nel sangue, e farmacodinamica che individua invece come e per quanto tempo agisce il
farmaco nell’organismo. Il betabloccante utilizzato, seppure farmaco ad azione recettoriale e quindi con un’
attività che perdura nel tempo,
ha comunque una
farmacodinamica piuttosto breve, in altri termini produce i propri effetti
per un tempo superiore alla sua cinetica, atteso il legale recettoriale, ma
non così lungo da poter agire a distanza di tre ore dalla sua
somministrazione; nel caso di specie, considerata la modalità di somministrazione per
endovena, la modesta quantità infusa ed il considerevole peso corporeo della
donna, gli effetti sul cuore avrebbero dovuto manifestarsi nell’arco di pochi minuti. A dimostrazione di ciò è stato rilevato che il Tenormin, farmaco
molto conosciuto ed utilizzato in rianimazione, viene spesso somministrato
ad infusione continua
controllata, proprio per poter mantenere i propri effetti nel tempo, effetti
che altrimenti verrebbero a cessare a poca distanza. E’ stato rilevato anche
che i farmaci recettoriali non
superano mai l’effetto di partenza: ora nel caso di specie è emerso dalla
cartella clinica che dopo la
somministrazione i parameri vitali ed in particolare la pressione sanguigna e
la frequenza cardiaca della ********** rimasero invariati per circa tre ore,
mantenendosi inalterata la tachicardia di base, che di fatto non subì alcuna
riduzione (in tale arco di tempo
peraltro risultano effettuate ben tre misurazioni). In questo contesto, ipotizzare come hanno fatto i consulenti del Pm
(pagg. 31 e ss verbale ud. 8.3.2005) che il betabloccante, che non ha
manifestato effetti nel tempo immediatamente seguente la sua
somministrazione, abbia contribuito
a distanza di tre ore a
scompensare la situazione critica in cui versava la paziente provocando un
esito così devastante (la grave bradicardia seguita dall’arresto
cardiocircolatorio) appare sulla base delle attuali conoscenze farmacologiche
francamente poco verosimile. Non può perciò affermarsi che esista con un elevato grado di
probabilità un rapporto di causa-effetto tra la somministrazione del Tenormin
e la grave bradicardia insorta a distanza di circa tre ore, posto che le
conoscenze scientifiche in materia portano ad escludere una simile
eventualità. Alla luce di quanto sopra esposto, considerato che i riscontri
probatori sull’individuazione
delle cause di morte della **********, sulla ricostruzione del processo causale e quindi sulla
reale idoneità condizionante delle condotte contestate agli imputati sono
risultati incerti e contradditori, deve pervenirsi a sentenza assolutoria
perché il fatto non sussiste. Stante la complessità della motivazione si indica il termine di 40
giorni per il deposito della sentenza.
P.Q.M. Visto l’art. 530 – 2° comma c.p.p. assolve gli imputati dal delitto loro ascritto perché il
fatto non sussiste. Indica in giorni 40 il termine per il deposito dei motivi. Mantova – Castiglione delle Stiviere, 16 settembre 2005.
Il Giudice D.ssa Cristina Ardenghi |